Li chiamano orfani bianchi, solo in Romania se ne contano 350 mila. Sono stati lasciati dalle madri venute a fare le badanti in Italia. Un'associazione li mette in contatto tramite internet
Suo figlio le parla dallo schermo e lei vorrebbe abbracciare il computer, prenderlo a baci. A quanti non è capitato di vivere un affetto a distanza? Senso di vuoto, esercizio della pazienza e la vita va avanti. Ma quando ad essere lontana è una mamma che ha lasciato in patria i suoi bambini, e i giorni diventano mesi e i mesi diventano anni, allora è un lento strappo del cuore, un dolore che batte e fa danni.
Negli ultimi decenni sono tantissime le donne partite dalla Romania (ma anche dalla Moldavia, dall’Ucraina) che sono venute in Italia per fare le colf, le badanti o le baby sitter. E mentre si prendono cura delle nostre famiglie, le loro restano in patria ad aspettarle, soprattutto i bambini: «orfani bianchi», si dice, perché è come se loro fossero rimasti soli al mondo: lasciati alle cure di padri, nonni, zii o vicini di casa, magari anche in orfanotrofi. Solo in Romania se ne contano 350 mila.
«Li vedo cresciuti dallo schermo, ma continuo a sognarli come li ho lasciati: dei bambini», racconta Vasilica, 39 anni, in Italia da otto. In un paesino vicino a Bucarest ha lasciato Adrian e Alessandro, 13 e 11 anni. Vivono col padre, ma col padre non parlano granché. Si sentono tutti i giorni con la madre, ma le chiedono insistentemente di tornare a casa. «Ma in Romania è tanto se guadagno 200 euro al mese – spiega Vasilica – come faccio a farli studiare?». Il suo dolore più grande è stato quando curava i bambini di una famiglia italiana: «Sbucciavo la frutta per loro, pensavo ai miei. Trattenevo le lacrime, poi la sera tornavano i genitori e li vedevo riunirsi felici. Certo, ho messo a posto la casa, li faccio studiare, ma non li ho visti crescere».
Poi c’è Gabriela, che ha passato mesi ad angosciarsi per sua figlia: l’ha lasciata che era ragazzina e lei ha preso a frequentare compagnie sbagliate. Usciva e chissà dove andava, per lei che era in Italia era diventata una tortura. «Ci parlavamo su Skype – racconta – sentivo la sua rabbia, cercavo di parlarle, ma è stata dura».
Il problema è questo: molte mamme romene non usano il computer oppure, se il pc si rompe, non lo fanno aggiustare. Prima viene l’affitto in Italia, poi vengono i soldi da mandare a casa, se ne restano ci si pensa. Non ne restano quasi mai. Dall’altro lato, in patria, ci sono i bambini: anche a loro servirebbe un computer e una linea telefonica, o magari uno smartphone per vedere il viso della mamma. Ma il più delle volte i mezzi non ci sono, i contatti sono radi, i bambini si sentono abbandonati, si ammalano di depressione, soffrono di ansia, hanno disturbi dell’apprendimento, sviluppano un senso di apatia e di indifferenza al mondo e a volte si suicidano (in Romania, dal 2008 ad oggi, ci sono stati 40 casi).
A Milano, Silvia Dumitrache ha dato vita alla Associazione Donne Romene in Italia (ADRI) e ha lanciato il progetto «Te iubeste mama» (Ti voglio bene mamma) per facilitare il contatto tra mamme e bambini. Ha l’appoggio di 13 biblioteche di Bucarest: dal 15 settembre, dal martedì al venerdì, dalle 8 alle 22, i bambini potranno connettersi su Skype e parlare con la loro mamma. «Ma l’idea – spiega Silvia – è di creare lo stesso servizio anche in Italia, per le mamme. Biblioteche o parrocchie, cerchiamo solo chi ci dia una mano».
Silvia è tornata da poco e si è portata dietro i disegni dei bambini. Uno dice: «Cara mamma, so che mi ami, ma senza di te è difficile, per favore torna». Un altro bambino non sa più dov’è sua madre e le ha lasciato un disegno: «Visto che tu vivi in Italia, se la trovi daglielo». Ovviamente c’è scritto una cosa sola: «Mamma, torna». (Stefania Culurgioni)
Fonte:Vanity Fair
venerdì 19 settembre 2014
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