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domenica 30 settembre 2012

Il “don” romeno che parla in dialetto

Imperia 28 settembre 2012
Paolo Isaia
videoservizio di Roberto Pecoraro

Il parroco di Badalucco conosce tre lingue, ma ha voluto imparare il vernacolo: "Credo sia il modo più bello per integrarsi in una comunità"  Badalucco - "Bona, don!". "Bona a vui! Alua?". Il rapido scambio di convenevoli in dialetto tra un “baucögno” e il parroco del paese, all’apparenza, non desta sorpresa: è proprio nei piccoli centri, in particolare nell’entroterra, che resiste l’uso del dialetto. Ma a Badalucco, qualcosa di strano, c’è. Perchè il “don”, non solo non è “baucögno”. E nemmeno ligure. O italiano. Don Antonio Robu, è romeno. Ha 40 anni, da nove è parroco di San Giorgio e Santa Maria Assunta, la chiesa principale del paese. Così come di Molini, Triora, Agaggio Inferiore Agaggio Superiore.

 Mentre ci accompagna al bar “La piazza” per il primo caffè della giornata, si ferma a salutare almeno tre persone, tra cui una giovane mamma con il figlio piccolo nel passeggino. Nessuno, stavolta, gli parla in dialetto, ma le parole sono le stesse: "Ciao don!", gli dicono tutti, e lui risponde sollecito con un saluto, un sorriso, una stretta di mano.

Dietro il bancone del bar c’è Giorgiana, anche lei romena, ma di religione ortodossa. Non frequenta la parrocchia, ma il suo sorriso a don Antonio è lo stesso degli altri abitanti di Badalucco. È difficile non farsi conquistare da questo giovane prete di montagna, come si definisce pensando alle volte che deve raggiungere Triora o Molini per celebrare messa, o visitare una persona malata. O celebrare un funerale, come mercoledì pomeriggio, proprio a Molini.

Don Robu indossa l’abito talare, "la talare", la chiama, qualche bottone un po’ lento e il colletto leggermente liso per il tanto uso. "Portarla tutti i giorni è una difesa, mi ricorda che ho fatto una scelta di vita", spiega sempre sorridendo. Una scelta che risale all’adolescenza, quando ha deciso di diventare sacerdote. In Italia è arrivato quando ne aveva 19, "subito dopo la caduta del regime comunista", sottolinea, ricordando per alcuni minuti quegli anni bui, quando, appunto ancora in Romania, essere cattolico significava quasi vivere nell’ombra. E in povertà. "Il mio padre spirituale - il suo esempio più terribile - ha trascorso 20 anni in una prigione comunista...".

Sarà anche per questo che il suo sguardo tradisce qualche anno di più, e che per molti badalucchesi rimane un prete “un po’ severo". Ma la sua vera età la dimostra tutta quando parla come, appunto, uno di 40 anni, o forse anche meno. Schietto come gli abitanti del paese. "So che qualcuno si chiede ancora come mai, così giovane, sono ancora a Badalucco... ma io qui mi sento a casa. Stare in un paese mi ha formato il carattere, e forse avevo il carattere adatto per stare in un paese", dice giocando con le parole, lo sguardo che guizza dietro gli occhialini tondi. "So che per 3, 4 anni sono stato, come dire, “in prova”, ma è la mentalità dei liguri, prima di darmi fiducia hanno voluto capire se ero qui per dovere o perché lo volevo". Si ferma, non c’è bisogno che dica altro. Ma poi aggiunge. "Me ne andrò solo quando sarò necessario altrove". Ma che don Antonio faccia parte di Badalucco non c’è alcun dubbio. E non solo per le filastrocche in ligure che recita una dietro l’altra, divertendosi come un ragazzino che vuole stupire chi lo ascolta. Dietro il suo sguardo sereno a c’è appunto tanta storia e tanta personalità. E tanta decisione nel portare avanti la sua missione. "Un parroco deve stare in mezzo alla gente, con i giovani e con gli anziani, gioire e soffrire con loro. La fede non deve essere un self-service, qualcosa che si tira fuori quando serve. Non mi piacciono i cristiani “scaldapanche” e “baciapile”, questa non è fede. Essere cristiano significa avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità". Severo, certo, ma giusto per la gente della vallata. Perché alla fine il sorriso, il suo sorriso, vince su tutto. E don Robu dice che non è stato poi così difficile conquistare i “baucögni”, pur chiudendo lì con i suoi meriti. "Chi si loda s’imbroda, si dice, ma io preferisco “laudate cavagnu che u manegu u se streppa".

Fonte: Il Secolo XIX

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