“Quando guardo per molto tempo un punto fisso sulla parete mi accade a volte di non sapere più né chi sono né dove mi trovo”. Incomincia così uno strano viaggio narrativo che si traduce nell’esperienza di un’altra realtà: una realtà irreale ma vera – quella, appunto, di un punto fisso sulla parete e di tutto un mondo di oggetti, di stanze, di esseri umani, di materia primordiale che abitano l’altra parte della realtà.
Accadimenti nell’irrealtà immediata non è una lettura, è un’iniziazione. Quando si chiude l’ultima pagina si ha la sensazione di aver imparato a leggere il mondo in un altro modo, nella sua parte vuota. Di essere penetrati sotto la pelle sensibilissima di Max Blecher e di percepire con lui il “profumo delle nocciole tostate” in una montagna di bucce di semi in decomposizione. Di sentire lo stupore della vita, tutta la vita del pianeta, in una conca d’acqua, tra “i meravigliosi pizzi del muschio verde del fondale, i vermi sospesi ai frammenti di legno, i pezzi di ferro vecchio ricoperti di ruggine e di melma”.
Max Blecher è il risultato di una sublime e triste contraddizione: un controllo consumato dell’arte della scrittura e un’esistenza troppo breve. Blecher è morto ventinovenne di tubercolosi spinale, malattia che lo ha incatenato al letto per gli ultimi dieci anni della sua vita. Rumeno di origine ebraica, ebbe contatti epistolari con Breton, Gide, Heidegger, Ionesco. Herta Müller (cfr. Terzapagina del 26/8/2011) ha scritto di “eroticità” delle cose sotto il suo sguardo penetrante. È comunque una capacità percettiva estrema, quella di Max Blecher, che sa leggere gli oggetti di questo mondo come se appartenessero a un altro mondo e proprio quell’altro mondo – irreale e onirico – fosse quello autentico.
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Max Blecher (1909-1938) |
Ma per riuscire a trascinare il lettore in questa nuova realtà occorre un linguaggio speciale, preciso e tagliente come un bisturi, fatto di frasi secche, lapidarie, qua e là attraversate da scarni lampi di immagini poetiche. Un esempio: “Vi erano giornate scolorite, col cielo annuvolato come un lenzuolo sporco. La pioggia scrosciava infinita nel parco deserto. I gravi tendaggi d’acqua si agitavano tra i viali come in un’immensa sala vuota”. La parola, in Blecher, aderisce alla materia, è materia. E la materia, per lui, è tutto. È la cera del panoptikum, il museo dove le figure umane sono più reali di quelle reali. È la carne rossa degli animali macellati, il fango e il letame nel campo del mercato bovino, le muffe che attecchiscono nei cassetti dei vecchi mobili e sui volti dei cadaveri riesumati di bellissime fanciulle.
Se la trama in sé ha un esile filo conduttore costruito sulla scia dei ricordi, la voce narrante – in prima persona – mantiene costante un ritmo narrativo scandito dall’entrata in scena di personaggi tutti singolari: il medico-topo, trovato morto nella soffitta di casa con una pallottola alla tempia, il padre del protagonista, il fratello del nonno, Eugen e la fascinosa Clara, il misterioso e sensuale Walter, e tutta la famiglia Weber, dal vecchio Samuele, al gobbo Ozy con le “braccia esili come flauti”, a Paul e sua moglie Edda. Edda è un’altra creatura enigmatica, come se appartenesse direttamente all’irrealtà del mondo. Irreale anche l’atmosfera creata dalle parole lapidarie che comunicano la sua morte: “Quell’autunno Edda si ammalò e morì”.
Gli esseri umani escono di scena come gli oggetti. Oggetti che non sono ossessive elencazioni come in certa narrativa francese, da Robbe-Grillet a Perec, ma oggetti in quanto esseri vivi, suggestive essenze o anti-essenze dell’altro mondo, quello irreale: una piuma nera d’uccello, un libriccino rilegato in tela nera, un posacenere di ceramica verde che conserva l’odore di cenere stantia, una striscia di seta nera con pizzo e lustrini. Oggetti e luoghi. Case che respirano, grotte solitarie, polverosi sottopalchi di teatro, sono questi i luoghi neutrali che agevolano le “crisi” del protagonista, ossia le incursioni nel mondo irreale e visionario.
Nonostante la materia semi-onirica, la lucidità nell’utilizzo delle parole è sorprendente. Persino i dialoghi, essenziali e misurati, mantengono la precisione espressiva anche quando sono apparentemente privi di scopo, come nel ludico scambio di battute tra Ozy e il protagonista, che ricorda quello tra Estragon e Vladimir di En atendant Godot.
E se fino a un certo punto del libro il protagonista che grida “Addio, ranocchietta!” ci può sembrare una specie di Pinocchio soltanto un po’ più vissuto, sul finale non ci chiediamo più chi sia. Non ci interessa più. Che ci affascina è il mondo ribaltato che ci ha fatto scoprire, la reale irrealtà dell’anti-mondo, quello stesso anti-mondo – che è poi un mondo letterario – in cui il protagonista di Accadimenti nell’irrealtà immediata vorrebbe restare confinato per sempre.
(Max Blecher, Accadimenti nell’irrealtà immediata, Keller editore, 2012, pagine 167, traduzione dal romeno Bruno Mazzoni)
19/06/12
Fonte: TuonoNews
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