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domenica 17 luglio 2011

Verdone: «Io, Romano, mi sento anche un po’ romeno»

L’attore e regista

14 luglio 2011
Michele Anselmi

Verdone

Roma - «Ma è una storia pazzesca! Voi del Secolo XIX avete fatto bene a metterla in prima pagina. A Hollywood ci sarebbe già uno sceneggiatore al lavoro. Da noi… non so. Certi film ci piace più vederli che farli. Siamo pigri, pure un po’ vili. Vince ancora un certo pregiudizio».
Da Cinecittà, dove sta girando “Posti in piedi in Paradiso” con Pierfrancesco Favino, Marco Giallini e Micaela Ramazzotti, Carlo Verdone commenta la storia di Sebastian Chesaru , raccontata lunedì su queste colonne. Romeno di Medgidia, 28 anni, quattro fratellastri, sguardo vivace, fisico scattante, due mani come tenaglie. A 17 anni, per guadagnarsi da vivere, si arruola nella Legione Straniera; a 22 si becca tre pallottole durante una missione in Bosnia; a 24 arriva in Italia, facendo avanti e indietro ogni tre mesi, disponibile ai mestieri più umili. Oggi lavora a Roma in un piccolo team anti-taccheggio, ramo supermercati. In pochi gli sfuggono alla cassa. Italiani, africani, albanesi o romeni, per lui non fa differenza.

«Assolutamente uno spunto da cinema. Sebastian mi pare uno dinamico, audace, onesto, che ne ha viste di tutti i colori e ha sposato la legge. Mi piace la sua storia» conferma Verdone. Pur essendo romano doc, si sente un po’ romeno. «Ne conosco tanti, gente per bene, che lavora sodo per 6 euro all’ora. Poi, certo, ci sono i criminali, i violenti. Di sicuro non si può raccontare l’Italia, al cinema, senza parlare di immigrati. Sul mio set ho albanesi, senegalesi, egiziani, moldavi, romeni, e non fanno solo le comparse mute» confessa l’attore-regista.
Ricorda che in “Io, loro e Lara” l’amante/badante del padre viene da Bucarest, che in “Il mio miglior nemico” la protagonista femminile è Ana Caterina Morariu. E moldava è la giovane infermiera, «preparata e premurosa, piena di tatto e di educazione», che accudì nell’ultimo mese di vita il padre Mario, già molto malato. «Stiamo diventando come Londra o Parigi, anche se lì mi sa che gli immigrati se la passano meglio» ammette Verdone.

La vicenda dell’ex legionario Sebastian gli riporta alla mente la storia di un altro romeno, Adrian. «Due anni fa dovetti rifare i cornicioni di casa. Sulla gru vedo un signore attorno ai sessanta. Aveva modi signorili. Diventammo amici. Alla fine uscì fuori che aveva insegnato storia delle religioni a Bucarest. Bastò nominargli Mircea Eliade, il suo volto si illuminò. Conosceva anche Ernesto De Martino e il mio professore Tullio Tentori. Su Eliade ho dato tre esami, forse è il maggior antropologo del mondo. Adrian me ne parlava con cognizione di causa e proprietà di linguaggio. Ma per tirare a campare rifaceva i cornicioni».
Nondimeno sui romeni resistono molti preconcetti, alcuni pure giustificati. «In generale sento un clima diverso. Un mio amico professore si fida solo di una coppia di romeni per la gestione di una villa. I bagni me li hanno rifatti idraulici romeni, un lavoro di precisione». D’accordo, ma non sono tutti così. Chi non ricorda, per restare a Roma, l’atroce destino di Giovanna Reggiani, nel novembre 2007 rapita, stuprata, abbandonata in un fosso per mano di un giovane romeno? «Se ci mettiamo a fare il conto di ciò che combiniamo noi italiani in materia di cronaca nera mi sa che vinciamo 8 a 2. Io la pianterei con ’sto razzismo: il marcio è dappertutto».
Le luci per la scena da girare sono pronte. Verdone deve chiudere la telefonata. Ma prima una cosa vuole dirla. «Si sapeva che sarebbero arrivati, e in tanti. Sono persone che vengono da regimi tremendi. Per anni sono stati tenuti al gabbio, bastonati, una volta usciti si sono trasformati in cani ringhiosi. Azzannano, uccidono. Nessuna giustificazione, intendiamoci. Ma ripeto: bisogna distinguere. Ho conosciuto romeni e albanesi ai quali presterei casa mia. Poi, d’accordo, non sono tutti come Adrian o Sebastian. Molti altri fanno paura». E con la paura viene la diffidenza, la voglia di armarsi, difendersi. «Capisco. Prova a prendere la macchina, di sera, e girare per le periferie. Le case sono protette da grate e inferriate spesse così, dai primi agli ultimi piani. I romani vivono come “segregati”, sono loro i veri carcerati. Anche le riunioni di condominio si sono trasformate in piccole guerre domestiche».
C’è tempo solo per una domanda su “Posti in piedi in Paradiso”, storia di tre mariti gettati sul lastrico dagli alimenti alle ex-mogli e costretti a vivere sotto uno stesso tetto: «Spero che il pubblico esca soddisfatto e divertito, ma anche un po’ turbato. Prima di iniziare il film mi sono detto: o lo faccio ottimo o lascio. Il “caruccio” non mi interessa più. Devo essere soddisfatto del mio lavoro. Il film è la fotografia di un Paese che non ce la fa. Ci sono pensionati che prendono 520 euro al mese. Come vivono? Di caffelatte e fette biscottate?».

Fonte: Il Secolo XIX

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