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domenica 22 aprile 2012

Diciottenni figli di immigrati Il diritto (ignorato) di essere italiani

Ma ora una lettera spedita dai Comuni più virtuosi glielo ricorda, sono sempre più numerosi a sceglierlo. Dal 2011 succede a Milano (è stata una delle prime iniziative della giunta Pisapia), ma anche a Padova, San Benedetto del Tronto, Cremona, Grosseto, Pordenone. Nel 2012 le lettere saranno 642 e il risultato atteso è ancora più alto. Ecco quattro storie che raccontano di giovani che hanno maturato la loro decisione.
MILANO - Sono circa un milione, i ragazzi nati in Italia da famiglie immigrate. A loro una legge del '92 garantisce il "beneficio" della cittadinanza con procedura accelerata: dal diciottesimo compleanno, per 12 mesi, questi "nuovi italiani" hanno diritto al passaporto semplicemente provando la loro residenza anagrafica qui fin dalla nascita: vanno bene certificati amministrativi, scolastici, medici, vaccinazioni. Poi un appuntamento all'anagrafe, una verifica che in genere dura appena qualche settimana e il giuramento sulla Costituzione.

La lettera ai diciottenni. Questa semplificazione ancora non basta, come notano, dal Presidente Napolitano in giù, quanti invocano una legislazione più aperta all'integrazione. Ma nel pieno del dibattito sullo "ius solis" e lo "ius sanguinis", mentre la campagna "L'italia sono anch'io 2'" ha raccolto e presentato in Parlamento 100 mila firme per una nuova legge, diversi Comuni hanno intanto deciso di fare una concreta mossa, suggerita dall'Anci 3in collaborazione con Save the children 4 e la Rete G2 5delle seconde generazioni, per aiutare a cogliere le opportunità che ci sono: spedire una lettera a casa ai neodiciottenni figli di stranieri, per ricordare loro che possono scegliere.
Nelle città dov'è successo. Dal 2011 succede a Milano (è stata una delle prime iniziative della giunta Pisapia), ma anche a Padova, San Benedetto del Tronto, Cremona, Grosseto, Pordenone. E le lettere hanno successo: a Milano, su 479 spedite nel 2011, le risposte positive sono state 458, il 39 per cento più dell'anno prima. Nel 2012 le lettere saranno 642 e il risultato atteso è ancora più alto. Perché restano difficoltà, resistenze e a volte perfino conflitti in famiglia (dato che in genere diventare italiani implica la rinuncia, concreta e simbolica, alla nazionalità d'origine), ma come dimostrano le quattro storie che abbiamo raccolto, la vita è spesso più semplice e saggia delle ideologie. Se si crede alla possibilità di migliorarla.

Monica: "un passaporto per il mio futuro". Si chiama Monica Rou Rou, ma il secondo nome cinese, che vuol dire dolce, intende abbandonarlo. Appena presa la cittadinanza italiana. "Suona ridicolo, non mi chiamano così neppure i miei genitori" dice. Ha anche un soprannome, ma su Facebook usa un altro nickname ancora, coreano. Perché la Corea è la Swinging London dell'Asia e Monica va pazza della sua musica, della moda, dei cartoni. Detto questo, vive a Padova, dove è nata e studia. "Incontrerete altri cinesi?", chiede.

Allora ti senti cinese?
"Così così, qui ho messo radici. Anche se mia sorella Alessia è in Cina a studiare e mio fratello è nato lì. Non li vedo mai".

E come comunicate?
"In chat, nonostante i fusi orari. Quando torno da scuola loro si sono appena svegliati. Usiamo l'alfabeto pinpyn, che ha i caratteri occidentali, altrimenti non potremmo capirci. Abbiamo avuto vite diverse, loro di italiano hanno solo il nome, io ho studiato qui".

E cosa vorresti fare?
"Un mestiere che mi faccia viaggiare, forse il reporter o l'interprete. Ma non in Cina, non parlo bene e non leggo gli ideogrammi: tutti mi dicono che è un peccato, ora che la Cina è tanto importante".

La tua migliore amica dov'è?
"Qui a Padova, l'ho chiamata prima di incontrarvi per dirle che ero un po' nervosa. Davvero metterete la mia fotografia?".

Sì. Mi fai vedere quella della tua carta d'identità?
"È questa, l'ho fatta da poco. Ma tra poco, appena mi danno la cittadinanza la cambio. Vedi, sul documento c'è scritto "non valido per l'espatrio". E che sono cinese. Quando sono andata a Parigi con le mie amiche ho dovuto fare la fila per gli stranieri...".

È importante questa cosa per te?
"Sì, a casa abbiamo un sacco di faldoni pieni di documenti. Se ne occupa mia madre, è anche dovuta andare a Torino dove sono nata a fare i certificati. È da qualche anno che ne parliamo, i miei genitori mi hanno chiesto che volevo fare. In Cina la doppia cittadinanza non è ammessa, e un po' mi dispiace. I miei preferiscono pagare le tasse di soggiorno anche se sono qui da venti anni. I miei cugini sono in Francia, e ho già un sacco di nipoti".

Non sono molti i ragazzi che come te possono chiedere in Comune la cittadinanza e ottenerla senza troppe complicazioni. Ci pensi a questo?
"Che siamo nuovi, vuole dire?".

Diciamo così.
"Ora che mi ci fa pensare, è una cosa bella".

Marco, rockabilly e Rumeno nato qui. Come tutti i ragazzi, Marco parla il minimo sindacale, perché quando si è ragazzi tutto è ovvio che parlarne è una noia. Ma non stavolta. Infatti da poco ha ricevuto dal suo sindaco una lettera per presentarsi in Comune a fare la pratica di cittadinanza e quando è arrivata gli è preso un colpo. Di più a sua madre. Lui minimizza: "Vabbe', è una lettera che ha mandato a migliaia di persone, mica è personale" dice. Per il resto ha una zazzera da rockabilly che è uno spettacolo della statica e una storia, complicata come tante.
È una lettera importante, comunque.
"Come no. C'è scritto qui, legga legga: che riguarda il mio diritto di lavorare, di votare, di viaggiare. Queste cose le avevo studiate a scuola, a lezione di diritto. Ius soli, si chiama così".

Tu sei nato a Salerno, ma al Comune una prima volta ti avevano detto di no, che tua madre era arrivata clandestina e che anche se per lei c'era stata una sanatoria tu non ne avevi diritto. Che è successo?

"Un impiegato, è stato. Ha detto che non andava bene e non ci ha fatto presentare la domanda. Ci sono rimasto malissimo. Quando mia mamma ha fatto la sanatoria io avevo già due anni. Poi ci siamo spostati qui, lei lavora in fabbrica. Da quando sono piccolo mi dice "vedrai, a diciotto anni avrai la cittadinanza, vedrai". Lei è rimasta qui per me e mio fratello più piccolo, Roberto. Ma lui è ortodosso, perché è nato in Romania, e io cattolico. Io ho fatto tutte le scuole, sono battezzato, pure i vaccini ho fatto. Adesso con questa lettera forse cambia qualcosa".
Ma per i tuoi amici, per la tua vita a Padova, cambia qualcosa avere la cittadinanza o non averla? Come rumeno sei cittadino Europeo.

"Penso per il lavoro, sono ragioniere, potrei fare dei concorsi. E poi mia madre si preoccupa dei mie figli, dice che se mi sposo è meglio essere italiano. A scuola in classe ci sono altre tre ragazzi stranieri, ma solo io sono nato qui. Abbiamo fatto la lezione di diritto, ma la professoressa non ci ha chiesto niente. Ma ho capito che lo ius soli in Italia non c'è, mi pare ci sia solo in Francia, dei paesi europei".

Come vorresti cambiasse, la legge?
"Vorrei che si potesse fare la cosa più semplice, magari un po' "ius soli" e un po' "ius sangunis". I miei amici dicono scherzando che io, nato a Maddaloni coi genitori della Romania, sono "terrumeno", una nuova razza.

E tu ti senti nuovo?
"Forse no, tranne che non parlo il dialetto padovano. Ma quelli che a scuola parlano il dialetto è perché hanno un nonno. A me piace la musica rumena, ma quando vado a casa d'estate anche loro mi trovano un po' strano, dicono che mi vesto da italiano".

Quando finisce la scuola che farai, a parte il concorso?
"Mi piacerebbe viaggiare. Per ora so quattro lingue, insomma due bene e due le studio a scuola, inglese e spagnolo. Ma ho girato poco. Non sono mai stato a Roma".

Nur: "La mia famiglia musulmana mi appoggia". "La Siria mi piace, ma per andarci in vacanza. Io lì non mi sento più a casa, mi sento una specie di turista. E lì le donne non sono libere, io non potrei viverci". Ha le idee chiare Nur Kekati, 18 anni compiuti a novembre, diventata cittadina italiana a gennaio.

Non hai mai avuto dubbi sulla decisione da prendere?
"A essere sincera, proprio no. Io sono italiana di formazione, di gusti, di abitudini. Penso che resterò qui tutta la vita, che avrò una famiglia italiana e che qui costruirò il mio futuro. Studio da ragioniera all'istituto Zappa, magari lavorerò in un ufficio, anche se mi piace tanto leggere e sarebbe bello poter fare qualcosa di letterario. E ora con la cittadinanza potrò fare i concorsi, andare avanti con la mia vita".

Vieni da una famiglia tradizionale. I tuoi come hanno preso la tua scelta?
"Benissimo. Anzi sono stati loro a informarsi per le pratiche e ad accompagnarmi al giuramento. È vero che la nostra è una famiglia musulmana, ma la religione l'intendiamo in modo aperto. A mio padre forse piacerebbe se indossassi il velo islamico, ma non me l'ha mai imposto. Io non mi sento di metterlo. Mi vesto come le mie amiche, magari solo un po' più attenta alla lunghezza di maniche e gonne".

E il Ramadan?
"Quello lo faccio, è una tradizione. Ma non mi pesa".

Altri legami col tuo paese d'origine?
"A casa parliamo siriano, perché la mamma non è molto pratica con l'italiano, ma anche italiano, perché i miei fratelli più piccoli non parlano la nostra lingua d'origine. Prima in Siria ci andavamo ogni due anni per trovare i parenti. ma dal 2010 non ci siamo più stati. Anche perché ora c'è la guerra, non sarebbe certo il momento giusto. Mia mamma telefona una volta alla settimana ai famigliari, stanno tutti bene, ma è un brutto momento".

Stefano, che non si è mai sentito diverso
La lettera del Comune è arrivata ai primi di gennaio, ma Stefano Avenido, 18 anni compiuti a dicembre, figlio di cittadini filippini residenti a Lambrate da 20 anni, sapeva già tutto. Anche sua cugina, nata a Milano come lui, ha ottenuto la cittadinanza italiana l'anno scorso, approfittando della stessa opportunità concessa dalla legge.

L'aspettavi, quella lettera, Stefano?
"Si, e sapevo che sarei stato il primo della mia famiglia a cambiare passaporto. Da piccolo, quando andavo nelle Filippine dai nonni, i miei genitori sono sempre stati attenti a rinnovare il mio certificato di residenza, perché non perdessi la continuità della presenza in Italia".

Che cosa hai provato il giorno del giuramento in Comune?
"Ero molto nervoso, temevo che mi facessero domande, che qualcosa all'ultimo non andasse per il verso giusto. Ma c'era mia mamma con me, che mi tranquillizzava. E funzionari gentili".
Scegliere fra le due nazionalità è stato difficile?
"Io sento forti anche le mie radici asiatiche, ma sono cresciuto a Milano, ho frequentato l'asilo, le elementari e le medie del mio quartiere. I miei amici sono i miei compagni di scuola, i figli dei vicini di casa, i ragazzi che ho conosciuto all'istituto tecnico Maxwell. Esco spesso con un ragazzo ucraino e con un salvadoregno, anche loro nati a Milano, anche loro in attesa di fare il giuramento per avere la cittadinanza. D'ora in poi, quando andrò nelle Filippine dovrò fare il visto come se fossi un turista? Poco male. Mi basta pensare a come si semplificherà la mia vita: basta burocrazia, basta code per rinnovare il permesso di soggiorno".

Ti capiterà di fare paragoni fra la vita a Milano e quella nelle Filippine...
"I miei vengono da un piccolo villaggio dove, a dire la verità, siamo tutti imparentati fra noi. Non ci sono strade d'asfalto, non esistono i tram e la neve si vede solo in tv. Qui a Milano io tanti quartieri nemmeno li conosco. È una grande metropoli, che un po' ti sfugge un po' ti prende. Ma dove hai la sensazione di poter costruire qualcosa".
20 aprile 2012
di ZITA DAZZI e CARLOTTA MISMETTI CAPUA

Fonte: La Repubblica

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