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giovedì 8 aprile 2010

“Il diario portoghese” di Mircea Eliade

di Gianpaolo Romanato

Scriveva, scriveva, scriveva. Con la costanza di un monaco e la frenesia di un maniaco. Libri, saggi, interviste, romanzi, racconti, articoli, e poi memorie, diari, schede, appunti. E lettere, tantissime lettere. C’è da credere che, in aggiunta alle ristampe di testi già noti, la pubblicazione di inediti di Mircea Eliade (1907-1986) non si fermerà presto. Stiamo parlando, infatti, del celebre storico delle religioni nato in Romania – probabilmente l’intellettuale romeno più noto del xx secolo, più volte candidato al Nobel – di cui è appena apparsa l’edizione italiana del Diario portoghese a cura di Roberto Scagno, professore all’Università di Padova (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 328, euro 34), di sicuro il maggior conoscitore in Italia della sua opera. E come tutti gli inediti rimasti nel cassetto degli autori, anche questi diari ci fanno conoscere cose che giovano al loro autore e cose che gli nuocciono. Cominciamo da quelle che gli nuocciono. “Non credo d’aver mai incontrato un genio di tale complessità”, scrive l’11 dicembre 1941. E chi è il genio così grande? Eliade stesso, che insiste (15 luglio 1943): “Da Eminescu in poi il popolo romeno non ha mai visto una personalità tanto complessa, forte e ben dotata”. E riflettendo ancora su se stesso, aggiunge in dicembre un’osservazione ancora più paradossale: “Un Leonardo è stato geniale perché fu attento alla sua genialità. La mia tragedia sta appunto nel fatto che io non lo sono(…) Il giorno in cui avrò il coraggio di proclamare l’elemento eccezionale che è in me (non solo “normale”, come finora) diverrò quello che sono veramente”.
E fermiamoci qui, anche se ci sono altre affermazioni di questo tenore, che sconfinano nel ridicolo. Questo diario, come avverte Scagno nell’attenta prefazione, è l’unico suo testo diaristico che egli non selezionò preliminarmente. C’è da credere che, se avesse avuto la possibilità di farlo, avrebbe epurato espressioni come quelle che abbiamo segnalato, che ci propongono i lati patetici di un intellettuale il quale rimane, nonostante queste cadute, una delle figure più geniali e creative del secolo appena trascorso. Il testo ci informa che era afflitto dalla depressione, dalla nevrastenia, che faceva continuamente ricorso a psicofarmaci: “Sento oggi la mia malattia, la mia depressione”, scrive il 6 maggio 1941, e ripete l’8 gennaio del 1943: “Sono un melanconico soggetto a crisi di depressione”. Nel successivo mese di giugno è ancora più esplicito: “Più volte al giorno devo vedermela con una crisi talmente grave – sia di disperazione sia di nervi – che credo abbatterebbe anche i più forti. Nessuno può immaginare la quantità di talento, di volontà e di semplice energia fisica spesa giorno dopo giorno lottando con me stesso e il demone che è in me”. E il 9 maggio del 1944: “La mia depressione viene da molto lontano”.
Da dove venivano queste crisi? Certamente da una condizione psichica altalenante fra autocoscienza della propria intelligenza e grande solitudine, o frustrazione per non essere ancora riconosciuto come riteneva di meritare. Ma anche dalla malattia della moglie Nina, un tumore che la portò alla morte nel novembre del 1944. E poi dalla crisi politica della Romania, il suo paese d’origine che egli allora rappresentava come addetto stampa della delegazione diplomatica in Portogallo. L’esito della guerra rendeva sempre più probabile che essa diventasse preda dell’Urss, eventualità che Eliade vedeva come assolutamente catastrofica. È noto che Eliade fu spesso accusato di indulgenza verso la Germania, di avere avuto una posizione filonazista talora sconfinante nell’antisemitismo. Furono queste accuse che gli costarono il premio Nobel. Roberto Scagno ha già ridimensionato in un volume apparso nel 2000 presso la Jaca Book (Esploratori del pensiero umano, pp. 259-289) questo castello di imputazioni, mostrando come il dossier antieliadiano, confezionato nel 1972 in una rivistina romena apparsa in Israele e intitolata “Toladot”, e di qui rimbalzato in tutto il mondo, in particolare in Italia grazie a Furio Jesi e ad Ambrogio Donini, fosse stato molto probabilmente pensato nella Romania di Ceausescu per screditare una delle maggiori figure della diaspora romena, che non svolgeva opera militante anticomunista, ma teneva alta, grazie a un prestigio pressoché universale, una linea culturale radicalmente alternativa a quella del regime. Il frutto di un’accurata opera di disinformazione, dunque, benché non del tutto infondata, tipica dei regimi comunisti del tempo.
Ora questo diario portoghese, relativo al periodo che va dal 1941 al 1945, conferma che quegli schizzi di fango, soprattutto l’accusa di antisemitismo, non avevano basi di verità. Ma ci aiuta a capire meglio la prospettiva di Eliade, cioè di un romeno innamorato del proprio Paese, di un uomo dell’est europeo che viveva tra due culture, quella europea e quella russo-sovietica, e che stava assistendo con angoscia alla fagocitazione del suo paese nel vortice del dispotismo staliniano. Ciò che avrebbe significato la fine della Romania, non solo come Stato ma anche come nazione, come annota nel luglio 1942. Bisogna leggere con attenzione le sue parole per comprendere un dramma che non fu soltanto suo ma di tutta il suo paese, e verosimilmente di altri popoli di quella che poi diventerà l’Europa sovietizzata al di là della “cortina di ferro”. Scrive il 19 novembre 1942. “Ciò che mi esaspera nelle discussioni con i filoinglesi, che si rallegrano di un’eventuale sconfitta della Germania, è che la passione politica fa loro dimenticare il fatto decisivo di questa guerra: l’ingresso attivo della Russia nella storia mondiale. Non diversamente si battevano in tempi remoti, latini e greci a Costantinopoli, lasciando che i turchi mettessero piede in Europa. Poi, per trecento anni, noi romeni abbiamo dovuto versare il nostro sangue perché i turchi non raggiungessero il cuore dell’Europa”.
E il 28 gennaio successivo scrive una pagina che fa rabbrividire pensando a ciò che in effetti avvenne non solo in Romania ma in tutta la fascia dell’Europa che va dalla Polonia al Mar Nero: “Sento fino alla lacerazione l’agonia di quelli che sono a Stalingrado, l’agonia dell’Europa. E, per riuscire a sopportare questa tragedia, mi rifugio in me stesso, nel libro che sto scrivendo, nei miei pensieri di sempre legati alla fine del nostro continente (…) E da questo inferno sento Eschilo rivoltarsi nella tomba. Lui, che cantò l’eroica resistenza dei greci contro l’Asia, assiste adesso alla resa dell’Europa alle orde euroasiatiche. Churchill e Roosevelt si sono incontrati di nuovo a Casablanca. E nessuno dei loro uomini vede come Stalin stia giocando con loro, come sono vittime della più tragica farsa della storia del mondo: gli assassini rossi, che in confronto agli altri assassini hanno il merito di avere operato su larga scala, dal milione in su, gli assassini rossi attesi come liberatori d’Europa”.
Eliade ci permette insomma di vedere la tragedia della Seconda guerra mondiale dall’angolo visuale, per noi inedito, di chi si vedeva abbandonato a una catastrofe peggiore di quella germanica: la catastrofe sovietica. Le sue riflessioni sull’antistoricismo e sulla storia come terrore da esorcizzare e non da giustificare – che gli suggeriranno alcune delle sue pagine più belle, nel libro Il mito dell’eterno ritorno, pubblicato a Parigi nel 1949 ma concepito e in parte scritto a Lisbona durante la guerra, come apprendiamo da questo diario – quelle riflessioni non nacquero da un ragionamento accademico, astratto, ma da una dolorosa meditazione sulla tragedia dell’Europa contesa tra due opposte barbarie. Una tragedia che si abbatté sulla Romania molto più pesantemente che altrove, lasciandovi ferite che non si sono ancora sanate, vent’anni dopo la sua conclusione. Scrive il 6 aprile del 1944: “Ho camminato per la città (di Lisbona) e ho detto a tutti i portoghesi che ho incontrato: sappiate che se la Romania cade, cadrà tutta quanta l’Europa Orientale. I Russi saranno nell’Adriatico e nel Mediterraneo. E quando prenderanno anche la Germania saranno sulle rive del Tago. Non li fermerà nessuno”.
Ci sono altre note di questo diario che fanno pensare, come la scudisciata che rifila a noi italiani il 16 maggio 1945, quando gli arriva la notizia della morte di Mussolini: “Ho visto le foto di piazza Loreto a Milano(…) L’ultima briciola di stima che nutrivo per il popolo italiano è scomparsa. Popolo di servi, di traditori e di ruffiani”.
Le pagine finali del diario, dopo la fine della guerra, la caduta della Romania e la scomparsa della moglie, sono un appassionato e disperato recupero del suo rapporto col cristianesimo. Abbiamo sempre pensato ad Eliade come a uno spirito sostanzialmente pagano, più legato a forme di religiosità cosmica che alla tradizione cristiana in cui era nato ed era vissuto. Non è proprio così. Questi frammenti diaristici, che rappresentano un sincero, immediato colloquio con se stesso, privo di filtri e di secondi fini, ci presentano l’altro volto di Eliade, un uomo tormentato dal silenzio di Dio, dal mistero del dolore degli uomini e dei popoli, continuamente alla ricerca di una via di fuga dalla sua personale disperazione e da quello che chiama il “terrore della storia”, un terrore – vivo soprattutto nei popoli dell’Est, abituati a subire più che a vivere la storia – che per l’uomo contemporaneo, desacralizzato e totalmente immerso in un orizzonte profano, gli sembra irrimediabile. Tornano in mente allora le ultime tre pagine del Mito dell’eterno ritorno, cioè il breve, folgorante capitolo intitolato Disperazione e fede, generalmente trascurato dai suoi molti esegeti.
Presentando il cristianesimo come la religione dell’uomo decaduto, decaduto dall’orizzonte della religiosità arcaica degli archetipi e dell’eterno ritorno di tutte le cose, dell’uomo immerso nel tempo continuo e privo di senso della contemporaneità, egli scrive che la fede nel Dio creatore e onnipotente è l’unica forma religiosa che può convivere con la modernità, l’unica capace di dare ancora un senso e uno scopo alla nostra vita: “Da questo punto di vista – scrive nell’ultimo periodo, quello che conclude il capitolo e il libro – il cristianesimo si rivela senza possibilità di contestazioni la religione dell’uomo decaduto, irrimediabilmente inserito nella storia e nel progresso”. Non stiamo cercando di forzare apologeticamente il pensiero di Eliade. Stiamo solo segnalando che nella complessità poliedrica del suo pensiero e nella sua stessa, tormentata esperienza di vita, la prospettiva cristiana fu tutt’altro che assente.

Fonte: L’Osservatore Romano

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho letto il diario. Molto angosciante e pieno di occulte verità, svela un Eliade poco conosciuto al grande pubblico, con le sue fobie, con le sue debolezze; il che lo rende così umano, così vicino a noi, pur essendo un GENIO creatore d'arte. Che Dio non dimentichi il nostro popolo romeno e che dalle nostre fila si alzi la voce degli intellettuali in grado di sollevarlo dalla miseria in cui lo hanno portato gli assupritori venuti dall'Oriente. Odihneste-te in pace, Mircea Eliade!
LOREDANA P.

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