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giovedì 29 aprile 2010

Nessuno bada alle badanti

La storia di Bianca, Gina e le altre. Romene: colf e tuttofare. Tengono in piedi le famiglie italiane. Cosa ricevono in cambio? Paghe da fame e minacce. “Speravo molto di più. Volevo un figlio. Ma come posso allevarlo se non sono sicura del salario?"

Pubblichiamo un estratto dal libro di Alina Harja e Guido Melis, Romeni. La minoranza comunitaria decisiva per l’Italia di domani, Rubbettino Editore. Un’analisi a 360 gradi della presenza romena nel nostro Paese. Un testo indispensabile per la comprensione del fenomeno.

Bianca, 26 anni, minuta, bionda, è arrivata in Italia circa quattro anni fa. Si è lasciata alle spalle Braşov, una delle città più belle della Romania, in cerca di un lavoro più retribuito, ma anche per stare vicino alla famiglia che viveva già in parte in Italia: il padre faceva il muratore a Napoli, mentre la sorella era badante presso una famiglia romana, dove si prendeva cura di un’anziana signora di 83 anni. Ed è stata appunto lei, la sorella, a trovarle lavoro come colf, sempre a Roma. La sua datrice di lavoro (“la padrona”, dice lei), una donna separata di 49 anni con 3 figli, lavorava come medico presso uno dei grandi ospedali della capitale.

Racconta Bianca: “Quando sono arrivata non parlavo l’italiano, anche se lo capivo a grande linee. Anche perché in Romania io guardavo Rai Uno in televisione. Sono arrivata in Italia con un visto turistico di tre mesi, ma ho iniziato a lavorare subito in questa famiglia. La padrona mi ha promesso che presto mi avrebbe messo in regola”.

Tutto regolare, si direbbe. Ma una volta scaduto il visto turistico la datrice di lavoro inizia a minacciarti.

“Era terribile! – ci dice, e le trema un po’ la voce nel ricordare –. Se prima mi prendevo liberi il giovedì pomeriggio e la domenica, come tutte le altre, dopo che il mio visto è scaduto non potevo praticamente più uscire di casa. La signora mi diceva che, se la polizia mi avesse preso, mi avrebbe rispedito a casa con tanto di interdizione. Io la imploravo di mettermi in regola, come aveva promesso, ma lei mi minacciava che mi avrebbe denunciato ai carabinieri. Praticamente da quel momento ho iniziato a lavorare non stop. Molto raramente mi capitava di poter uscire. Ero come murata in casa. Sedici ore al giorno, curando i tre figli della signora e pulendo una casa di 200 metri quadri. La giornata tipo iniziava alle sei di mattina: preparavo la colazione, i vestiti per i bimbi. Poi li vestivo e li accompagnavo a scuola. Tornata iniziavo a pulire casa, a fare il bucato, a stirare, a preparare il pranzo. Dovevo fare anche i compiti con i bambini… Insomma mi svegliavo prima di tutti e andavo a dormire per ultima. E tutto per una paga di 550 euro al mese”.

Ma c’è di più…

“La signora aveva un compagno che dormiva anche lui qui. Un giorno, mentre lei era al lavoro e i bambini a scuola, quest’uomo ha provato a violentarmi. Mi sono spaventata e l’ho graffiato. Alla signora non ho detto nulla, anche perché non mi avrebbe mai creduto. Lui mi ha minacciata che mi avrebbe denunciata se non facevo quello che diceva lui. È stato molto difficile, in quel periodo. Anche perché non avrei mai ceduto alle sue avance. Ma poi un’amica mi ha detto che lui non avrebbe avuto il coraggio di denunciarmi perché avrebbe messo nei guai anche la signora. In fondo lei ospitava una clandestina”.

Nemmeno l’entrata della Romania nella Comunità europea ha migliorato di molto le cose.

“Mi ricordo bene quella sera. Ero felice e ho brindato con Coca Cola con i bambini. La signora era andata a una festa. La mia situazione sarebbe cambiata del tutto. Non ero più clandestina, non dovevo più vivere nella paura e sotto minaccia. Quella spada di Damocle sarebbe stata finalmente eliminata. Purtroppo però sono successe una serie di cose brutte e siamo stati subito additati come criminali. La signora mi diceva sempre che tanto la Romania sarebbe stata espulsa della Comunità, che noi romeni siamo tutti degli zingari, e le romene tutte delle poco di buono. A un certo punto però le ho risposto: “Saremo pure delle poche di buono, ma almeno un cuore noi ce l’abbiamo”. Si è arrabbiata e mi voleva licenziare. Francamente, forse sarebbe stato pure meglio. Non mi importava, all’epoca. Ero stufa di subire le sue umiliazioni. Poi quando ha visto che io facevo sul serio si è data una calmata. Poi le ho chiesto di mettermi in regola, altrimenti me ne sarei andata. Allora lei mi ha presentato un contratto di lavoro e io l’ho firmato. Solo che in seguito ho scoperto che non l’aveva registrato e che non aveva pagato nessun contributo. Ma intanto mi aveva tolto dei soldi dallo stipendio con la scusa di pagarmi i contributi.

Quando è uscita la legge che parlava dei 500 euro da pagare per mettere in regola le badanti e le colf, mi ha licenziato. Mi ha praticamente buttata in strada. E quando ho cercato di protestare mi ha picchiato, anche. Mi ha dato uno schiaffo, perché dice che le mancavo di rispetto. Io le ho fatto causa e l’ho denunciata ai carabinieri. Adesso se ne occupa un amico, sindacalista romeno. Tante volte non sappiamo neanche i diritti che abbiamo. Io sono stata fortunata a conoscere questo ragazzo, che mi ha detto come devo comportarmi. Ma tante di noi non lo sanno. Adesso? Adesso lavoro a ore. Mai più fissa”.

Qualche dato
Negli ultimi anni nessuno, come le donne romene (e quelle ucraine), ha saputo intercettare il bisogno di assistenza (e di una assistenza prestata con particolare attenzione, cura e familiarità) tanto diffuso in una società come quella italiana, sempre più invecchiata dall’inizio degli anni Duemila. In assenza di reti assistenziali moderne e di un efficace sistema assicurativo privato (che in Italia non c’è mai stato), l’emergenza-vecchiaia è ancora una volta delegata alla famiglia, che, a sua volta, vi provvede attraverso l’antica figura della collaboratrice domestica: domiciliata presso l’anziano assistito (e quindi in pratica in servizio 24 ore su 24), dotata di una sua pragmatica capacità di adattarsi a tutte le situazioni contingenti, spesso sorretta da un istintivo sentimento della solidarietà che si porta dietro come retaggio della famiglia allargata contadina nella quale è cresciuta. Le badanti che arrivano dall’Ucraina sono il 21%, e quelle romene il 16,4%. Seguono, distanziate, le filippine (il 9,5%), le polacche (il 7%), le ecuadoriane (il 6,4%), le marocchine (il 5,7%) e infine le peruviane (il 5%). I salari sono molto variabili, così come le condizioni di vita (che possono o no comprendere l’ospitalità presso l’assistito, il vitto, ecc.). Comunque, in base al contratto Inps, chi cura gli anziani è retribuito in Italia con 4,2 euro all’ora (retribuzione di base, insistiamo a dire).

Altre storie
Anche Gina, 53 anni, di Botoşani, racconta una storia molto simile. È venuta in Italia nel 2000. Ora vive a Firenze e lavora insieme al marito presso una famiglia di architetti. Lui fa il giardiniere.

“All’inizio sono venuta da sola. Un’amica mi aveva trovato lavoro come badante di un signore di 85 anni, a Milano. Lui non era autosufficiente. Gli facevo tutto, gli cambiavo anche i pannoloni. Tutti i giorni, quando mi sedevo a mangiare lui iniziava a gridare che voleva essere cambiato. Puoi immaginare che gusto aveva il cibo per me. Ovviamente ero assunta in nero, senza assicurazioni. Ero insomma clandestina, si dice così? Tutte le volte che uscivo per strada avevo paura degli uomini in divisa, anche se vedevo quelli della sicurezza nella metro. Ho passato così due anni, non ce la facevo più. Poi alla fine ho avuto fortuna: ho trovato una famiglia a Firenze, sempre tramite un’amica. Loro mi hanno messo in regola. Mi trovo bene, adesso. Poi ho fatto venire mio marito e mia figlia. Ci occupiamo – io e mio marito – anche dei loro genitori. E viviamo con loro”.

Ad Arezzo, nel pieno della provincia italiana (e sia pure nella civilissima Toscana) tutto si fa più difficile. Incontriamo Maria e Alina, poco più di vent’anni. Una sposata con un ragazzo romeno, operaio edile, anche lui giovanissimo; l’altra ancora in famiglia con i genitori. I loro sogni, le loro idee, le insofferenze e le speranze sono le stesse delle loro coetanee italiane. Sono venute dalla Romania rurale con il mito del posto fisso, magari commesse nei grandi magazzini o – chissà? – studentesse universitarie a part-time. Vanno invece a servizio a ore nelle case dei benestanti aretini, non sempre assicurate come la legge vorrebbe, spesso sottopagate. Vivono lavorando, anche duramente. La domenica s’incontrano tra loro nella ristretta cerchia degli immigrati romeni. Molti dei loro sogni di giovani ragazze sono svaniti.

Ci dice Maria, carina, bruna, ben truccata, un italiano perfetto:

“Speravo molto di più. Volevo un figlio, con il mio Ian. Non posso permettermelo. Con chi lo lascerei per andare al lavoro? E poi come posso pensare di allevarlo se non sono sicura del salario? Sto invecchiando (ride, insieme all’amica che la ascolta), passano gli anni e non so se cambierà”.

E Alina, intervenendo:

“Qui le vetrine sono piene di cose belle e la passeggiata in centro, la sera del sabato, di ragazze della nostra età ben vestite e carine. Noi le guardiamo. Non abbiamo molti amici di Arezzo, amici italiani dico: ce ne stiamo molto tra di noi…”. Storie di delusione. Di ordinario sfruttamento, anche, in un Paese che vanta una delle legislazioni a tutela del lavoro più moderne d’Europa. Ma l’immigrazione, persino quella comunitaria, rientra a stento nelle tutele sindacali: fa storia a sé.

Fonte: Rassegna

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