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domenica 19 dicembre 2010

«Io, l’Osservatore Romeno senza dizionario bilingue»

di Mihai Mircea Butcovan*

Viviamo in tempi di elenchi. Alcune liste sono utili e necessarie, altre indispensabili a qualsivoglia ripresa culturale di un Paese, quindi inevitabili anche per il Belpaese.
Sette mesi fa, in tempi che oggi potremmo definire “non sospetti”, ho risposto, sul «Corriere della Sera», alla domanda sui motivi che mi hanno sospinto a studiare la lingua italiana.

Risposta al «Corriere»

Scrivevo allora:
«Arrivai in Italia poco più che ventenne. In italiano sapevo appena dire “ciao”. È un saluto. Universale, d’accordo, ma è appena un saluto. Talvolta è accoglienza e riconoscimento, talaltra è benvenuto e commiato. Ci sei, ci sono, ti riconosco. Forse. Ma per conoscerti ho bisogno di una lingua che mi avvicini a te, che mi faccia raccontare a te. Per dire chi sono. Per chiederti di riconoscermi almeno il diritto di esistere. Mi domandavo allora: imparerò la tua lingua, per parlarci, riconoscerci, raccontarci e qualche volta dirci chi siamo? Sin dal primo giorno trascorso nel Belpaese mi sono sentito in quella condizione che tecnicamente qui viene chiamata “ritardo scolastico”. Sensazione che mi porto addosso ancora, dopo diciannove anni di permanenza qui. Eppure dovrebbero bastare, quasi vent’anni, per prendere una “maturità” linguistica. Ma poi l’ho imparata questa lingua? Diciamo che, un po’ Marcovaldo e un po’ Osservatore Romeno, ho fatto degli sforzi in questa direzione. Qualcuno mi chiama ancora migrante. Infatti, “a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”.
Mi chiedi perché mai ho provato ad imparare la tua lingua?
Per leggere quello che anche tu, forse, hai letto.
Per leggere scritti corsari, quelli di ieri e quelli di oggi.
Per ascoltare un amico fragile.
Per capire che anche qui qualcuno era comunista.
Per scoprire che l’obbedienza non è più una virtù.
Per intuire che cos’è una locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Per commuovermi con la ballata di un viaggiatore cerimonioso.
Per scoprire che mio fratello è figlio unico.
Per leggere quella lettera a una professoressa.
Per comprendere il giorno della civetta, passato e presente.
Per illuminarmi d’immenso.
E per raccontare di tutto questo».

«Giocando con i congiuntivi in riva al Po»

Ampliando le riflessioni contenute in quell’articolo aggiungerei alcune osservazioni.
Un romeno che arrivava in Italia dalla Romania nei primi anni ’90 era agevolato nella cognizione della lingua italiana soprattutto perché la lingua romena è una lingua neolatina.
Oggi la facilità di apprendimento è data anche dalla crescente interazione tra i due Paesi, dall’intensificazione dei contatti umani, culturali, economici, turistici e giocoforza linguistici.
Ma nel 1991 io sapevo soltanto una parola italiana. Inevitabile quindi, a vent’anni, la sensazione di ritardo e difficile o addirittura impossibile recupero di uno scarto ventennale.
In quel periodo pensavo: per capire l’Italia odierna dovrei ripartire dagli Etruschi; per comunicare con l’Italia di fine secondo millennio dovrei appropriarmi del veicolo linguistico necessario.
«Una seconda infanzia» l’avrei definita anni dopo nella raccolta di poesie Borgo Farfalla, anche in risposta all’invito di qualche paladino della padanità a lasciare la penisola e tornarmene “nella foresta”:
«Non andrò via, no// Qui vissi la mia seconda infanzia/ Giocando con i congiuntivi/ In riva al Po».

Papà Gheorghe e il lavaggio del cervello

Nella mia prima infanzia vissuta in Romania un ruolo importante lo ha avuto la lettura. Da una parte sui banchi di scuola si faceva molto esercizio mnemonico di poesia. Talvolta i versi erano impregnati di un’isteria patriottarda non facile da scongiurare a quella età.
Qualcuno ha detto che «la lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno» e io, non potendo prendere treni nella Romania degli anni ’70 e ’80, per i primi vent’anni di vita ho viaggiato leggendo.
La lettura, come la scrittura diaristica, era una delle forme silenti per tenere aperti i confini del proprio pensare sotto una dittatura che toglieva il diritto di dire quello che si pensava.
In quel contesto papà Gheorghe mi ripeteva in maniera quasi ossessiva: «Mihai, se non puoi dire quello che pensi, almeno evita di pensare cazzate». Non mi si accusi di turpiloquio, ma l’utilizzo di “stupidaggini” non avrebbe reso nella traduzione di questo consiglio piuttosto impegnativo ma fondamentale per sopravvivere al lavaggio del cervello in quel periodo.
A scuola ci congedavano per le vacanze estive con un elenco di decine di libri da leggere: certi narratori e poeti che avremmo studiato nel successivo anno scolastico. Così si poteva studiare la letteratura romena e si frequentavano alcuni autori senza limitarsi ai frammenti antologizzati nel manuale di lingua e letteratura romena.
Ad esempio ho creduto ai racconti di mio padre sui contadini leggendo Liviu Rebreanu e Marin Preda. È accaduto nello stesso tempo anche il contrario. Ho amato questi romanzi grazie ai racconti di mio padre.
Da Emil Cioran ho imparato ad essere «il segretario delle mie sensazioni».

Parole italiane nella valigia romena

Perciò, una volta arrivato in Italia, dopo una breve “rassegna stampa”, mi sono autoproclamato “L’Osservatore Romeno”. Un’osservazione iniziata dai margini, diventata progressivamente sempre più partecipante. La registrazione scritta delle esperienze vissute nello sconfinamento geografico, culturale e linguistico ha rappresentato il proseguimento di un esercizio abitudinario che ha visto nel tempo, inavvertitamente, la sostituzione del romeno con l’italiano.
Forse perché la lingua italiana era diventata la lingua della quotidianità, degli studi, delle letture, delle relazioni sociali ma anche degli affetti. Sono arrivato in Italia con una “valigia piena di parole romene” e ho incominciato ad aggiungere parole italiane. E quante ce ne stanno ancora!
Potrei definirmi un autodidatta se non fosse per l’elenco smisurato di maestri che ho trovato nei libri, nei giornali e nelle canzoni italiane. A loro devo molto.
Ho domandato ai libri, alle persone e soprattutto a quello che Gianni Rodari definiva come lo strumento più democratico che ci sia: il vocabolario.
Ma chi apprende una nuova lingua può anche muoversi con la spensieratezza di chi non esclude la possibilità dell’abbinamento di alcune parole soltanto perché la maestra a scuola inorridiva all’idea e quindi inibiva certi slanci creativi.
Così uno “studente” di lingua è meno vincolato da regole preesistenti e dai luoghi comuni vigenti. Può “giocare” con le nuove parole, accostarle in modo del tutto inedito perché svincolato da invalicabili norme grammaticali apprese sui banchi delle scuole elementari.

Il primo focolare e la nuova casa

Io mi sento a casa quando le emozioni suscitate da un’immagine o da una situazione trovano una via d’uscita e un passaggio verso un altro essere umano. Arriva un momento in cui l’espressione di quello che pensi nella nuova lingua viene spontanea, senza più “insicurezze inibitorie”.
Ma ti senti veramente a casa nel momento in cui quello che stai vivendo lo puoi raccontare e (de)scrivere ad altri senza dover ricorrere a un dizionario bilingue. Ogni casa poi, è stretta o larga, a seconda di come la vivi e percepisci. Sicuramente va arredata con gusto, il “tuo” gusto.
Tuttavia il primo focolare linguistico è rimasto in Romania. E il ritorno, a volte, mi obbliga a fare i conti con il distacco che la lontananza fisica impone. Si perde sempre qualcosa prima di conquistare altro. La parola rimane sospesa tra il ricordo e una realtà quotidiana in cui non trova la piena libertà per esprimersi. Ma di fronte a certi stimoli può riemergere, uscire dalla memoria con la forza di una “macchina del tempo” in grado di trasportarti nel passato, in luoghi e situazioni archiviate – così sembrava – per sempre, dove lo stesso tempo si è fermato.
Mi tocca fare continuamente anche bilanci, in termini di entrate e uscite, con almeno due lingue.
Ero partito dal mio Paese d’origine con un discreto saldo di parole. Poi le entrate sono diminuite e ho aperto un nuovo conto linguistico. Forse in regime di partita doppia. Per un lungo periodo ho vissuto con ansia il deficit nella nuova lingua. Poi è arrivato il momento della sensazione di pareggio e in seguito si crea persino un fondo di riserva. Del resto, nell’esperienza della migrazione linguistica le parole hanno la potenza delle note musicali: per quanto poche siano puoi comporre un’infinità di melodie, con un’infinità di vibrazioni nel musicista e nell’ascoltatore.

Trilussa, Ceauşescu e la scuola di Barbiana

Elencando i dodici buoni motivi per imparare l’italiano, ho evitato di fare nomi. Spesso mi diverto a seminare nei miei scritti degli indizi, a volte fuorvianti, altre volte dissacranti. È anche un modo per saggiare l’attenzione dei lettori ma anche un debito intellettuale nei confronti di alcuni autori italiani. Per questo in molti testi che ho scritto ci sono omaggi, più o meno espliciti, ai maestri che ho trovato nel Belpaese.
Ma due citazioni esplicite mi preme farle sempre in occasioni pubbliche.
Trilussa mi ha prestato, nella sua poesia Nummeri, il miglior modo per sintetizzare la difficile comprensione della dittatura di Ceauşescu e per rielaborare alcuni aspetti del passato. Mi sono sempre rifiutato di credere che un dittatore riesca a possedere la capacità di buggerare – in ogni accezione del termine – 23 milioni di persone, senza la collaborazione di centinaia e migliaia di singoli cittadini più o meno consapevoli, più o meno zelanti. Perché il problema non è tanto quando la storia la scrivono i vincitori; il problema è quando la storia, anche quella contemporanea, la scrivono i colpevoli.
E poi leggo e rileggo commosso, imparando ogni volta cose nuove, un libro che «non è scritto per gli insegnanti ma per i genitori, un invito a organizzarsi».
È stato scritto oltre quarant’anni fa da otto ragazzi della scuola di Barbiana.
Grazie a loro ho inserito nel mio programma d’italiano anche il contratto dei metalmeccanici.

*Mihai Mircea Butcovan è nato nel 1969 a Oradea, in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale. Narratore e poeta, ha pubblicato il romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa 2006). Con la raccolta di poesie Borgo Farfalla (Eks&Tra 2006) ha vinto, nel 2006, la XII edizione del Premio Eks&Tra. Nel 2009 ha pubblicato Dal comunismo al consumismo, fotosafari poetico esistenziale romeno-italiano, raccolta di poesie corredate dalle fotografie di Marco Belli (Linea BN edizioni). Membro del comitato editoriale della rivista «El-Ghibli». Collabora con varie riviste e giornali, tra cui «Internazionale», «il manifesto» e «Caposud». (www.mihaibutcovan.it)

Fonte: Treccani

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