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domenica 2 gennaio 2011

ANSI, un’opportunità per giornalisti e mezzi di informazione

Da Alban Trungu 28 Dic 2010

Un’intervista con la Presidente dell’ANSI, Viorica Nechifor, sulle problematiche dei giornalisti stranieri in Italia e il modo in cui i mezzi di informazione parlano di immigrazione.
Dal febbraio del 2010, la Federazione Nazionale Stampa italiana, ha un nuovo gruppo di specializzazione al suo interno: l’Associazione Nazionale Stampa Interculturale composta da 25 giornalisti stranieri iscritti agli Ordini dei giornalisti e alle Associazioni di stampa regionali.

Una realtà quella dell’ANSI impegnata su due versanti principali: l’advocacy per i giornalisti stranieri e l’informazione responsabile sui temi dell’immigrazione. Attualmente, si sta occupando del superamento degli ostacoli legati all’iscrizione dei giornalisti stranieri presso gli Ordini regionali. Per questo motivo, mette a disposizione di chi è interessato un kit di informazioni e qual’ora fosse necessario anche l’assistenza nella presentazione della domanda. Dall’altra parte, sta lavorando per l’elaborazione e l’attuazione di politiche e pratiche che promuovano le diversità culturale all’interno dei mezzi di informazione, e vuole occuparsi della formazione interculturale dei giornalisti per favorire un’informazione responsabile e un comportamento deontologico.

Per sapere di più sul suo funzionamento, le problematiche che sta affrontando e il modo in cui i mezzi di informazione continuano a parlare di immigrazione, abbiamo parlato con Viorica Nechifor, Presidente dell’ANSI.

Che cos’è l’ANSI? Quando nasce e perché?

È l’Associazione Nazionale Stampa Interculturale ed è nata ufficialmente il 19 febbraio di quest’anno, però il lavoro che abbiamo fatto è molto più datato. È iniziato nel 2004, dall’incontro di più colleghi impegnati in Italia su vari progetti, e parlo dell’allora Passaporto trasformato poi in Metropoli, di Migranews, la prima agenzia stampa con cui abbiamo collaborato. Ciascuno di noi lavorava su piano locale in varie redazioni. Ad esempio, il nucleo di Torino lavorava alla Radio Torino Popolare. In quell’anno abbiamo avuto un primo incontro con COSPE che ci aveva monitorato e ci ha chiesto di incontrarli per parlare di quello che stavamo facendo. La sorpresa è stata di sentire che in altre regioni capitava un po’ quello che capitava a Torino. C’erano colleghi giornalisti che avevano percorsi come i nostri, che collaboravano con varie testate e quindi ci è stato proposto di fare rete e conoscerci.

Nel 2005, nel corso del primo Meeting sui media multiculturali a Firenze è venuta fuori anche la piattaforma su questi media che metteva insieme tutti i punti che ci univano: il fatto di collaborare senza avere uno status professionale oppure lavorare molto spesso in realtà che erano basate sul volontariato o piccoli finanziamenti regionali. Sono seguiti altri incontri negli anni successivi, fino a quanto nel 2007 c’è stata una presentazione ufficiale alla Camera dei Deputati a Roma, in cui abbiamo presentato la nostra realtà, rendendoci conto che quello che stavamo facendo andava professionalizzato. E a chi rivolgersi se non all’Ordine dei Giornalisti che aveva il dovere e il compito di regolarizzare in qualche modo questa nostra presenza.

Quali sono le problematiche principali riscontrate nel vostro percorso?

Abbiamo riscontrato il fatto che per poter iscriversi all’Ordine molti di noi avevano problemi nei regioni in cui risiedevano, nonostante potessero provare di avere tutti i requisiti per farlo. La legge che sta alla base dell’Ordine dei Giornalisti prevedeva che per iscriversi bisognava essere cittadini italiani, ma abbiamo scoperto che questo vincolo era già superato da una circolare del Ministero della Giustizia, la quale sancisce che l’iscrizione in un ordine professionale non è vincolato alla cittadinanza. Da lì è iniziato il nostro lavoro. Il fatto sta che dopo 5 anni di lavoro, 25 giornalisti sono riusciti a iscriversi o come pubblicisti o come professionisti pur non avendo la cittadinanza italiana.

Poi, abbiamo riscontrato il fatto che in varie regioni è più difficile iscriversi, mentre in altre è molto più facile. Dall’altra parte, la Piattaforma dei Media multiculturali non era un soggetto giuridico. Chiunque stesse di fronte a noi ci chiedeva: ma voi come vi proponete. Abbiamo pensato che era opportuno costituirci come una personalità giuridica e la forma più idonea ci è sembrata quella del gruppo di specializzazione che praticamente ci colloca dentro la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, quindi siamo a tutti gli effetti parte della struttura che regolamenta l’attività giornalistica in Italia.

Perché quest’esigenza di costituirsi in gruppo di specializzazione?

Gruppo di specializzazione perché non volevamo fare un lavoro a parte. Siamo convinti che il lavoro di informazione riguarda tutti quanti noi e non può essere fatto da posizioni diverse. Abbiamo bisogno di lavorare insieme ai colleghi italiani e l’esigenza di far parte del sistema giornalistico italiano ci ha fatto pensare che la forma migliore era stare dentro il sindacato stesso dei giornalisti. Perché il rischio era di costituirsi come un’associazione qualunque e di essere l’ennesima che si propone come partner di discussione.

Quindi siete di fatto un gruppo di specializzazione o anche un’associazione?

Siamo un gruppo di specializzazione. Adesso per ragioni di finanziamenti e collaborazioni con gli altri soggetti ci siamo costituendo anche come Associazione di promozione sociale. Ci rendiamo conto che la scelta di costituirsi in gruppo di specializzazione è stata più difficile, perché per iniziare abbiamo dovuto scegliere di starci ed avere tutti i requisiti richiesti per i giornalisti italiani, quali l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti e quella nelle Associazioni di stampa regionali. Questo percorso, in qualche modo, ci ha fatto perdere pezzi, ma ci ha posizionato in un ambito che adesso ci permette di dire: guardate noi siamo questi però avremo da proporvi anche altro. Troviamo soluzioni anche per i colleghi che lavorano come volontari e non riescono a maturare i requisiti che vengono richiesti, nonostante facciano radio, tv, carta stampata da 6-7 o addirittura 10 anni. Troviamo soluzioni, parliamo anche di queste realtà che esistono nell’Italia di oggi e che ci riguardano tutti. Il fatto che ci sono più di 500 testate, cosiddette multiculturali o interculturali, vuol dire che c’è bisogno di questa informazione alternativa, di queste altre voci. Parliamone, e parliamone con gli operatori dell’informazione e con chi ha il dovere di trovare soluzioni.

Attualmente come funziona il gruppo di specializzazione? Gli altri giornalisti stranieri possono farne parte?

In questo momento, una delle nostre attività è proprio di affiancare i colleghi che sono interessati e possono in qualche modo dimostrare di avere i requisiti richiesti. Per poter essere giornalisti oggi in Italia bisogna avere due anni di attività e aver maturato un certo numero di articoli o di trasmissioni retribuite. Tuttavia, sono requisiti che variano da regione a regione. Per chi fosse interessato ad avere questo tipo di informazioni, abbiamo in disposizione un kit di informazioni che si può richiedere inviando una e-mail o alla nostra sede legale presso l’Associazione di Stampa Subalpina ( direzione@stampasubalpina.itQuesto indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. ), o alla nostra sede secondaria presso la Federazione Nazionale Stampa italiana ( segreteria.fnsi@fnsi.itQuesto indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. ). In entrambi i casi, inserendo nell’oggetto “All’attenzione dell’Ansi” e facendo riferimento sia a me sia a Paula Baudet Vivanco che è la nostra Segretaria nazionale. Noi possiamo fargli avere questi kit e preparare in qualche modo il terreno la dove l’Ordine Regionale fosse un po’ più rigido, inviando tutta la documentazione necessaria.

Lei ha già menzionato che alcune difficoltà sono state superate con la circolare del Ministero della Giustizia. Attualmente, un giornalista non italiano per iscriversi all’Ordine non deve avere la cittadinanza ma basta aver maturato i criteri richiesti. Invece per fare l’esame di giornalista e il direttore responsabile serve ancora la cittadinanza?

Diciamo che ci sono perplessità anche per qualcuno che vuole fare l’esame, però sono superabili. Ci sono colleghi che l’hanno fatto pur non essendo cittadini italiani. Una volta che si è percorso tutto l’iter previsto che sia l’università, il master oppure il praticantato di 18 mesi presso una redazione, è superabile, basta parlarne. Chiunque avesse bisogno, noi ci siamo.

Invece per quanto riguarda il direttore responsabile è un problema che non abbiamo ancora superato. Lo stesso vale anche per il Presidente di un’associazione onlus che vuole proporsi come editore. Questi sono due dei problemi con cui l’ANSI si propone di presentarsi di fronte all’Ordine e al sindacato dei giornalisti. Se c’è una legge da cambiare, parliamone. Se ci sono soltanto incomprensioni, parliamone pure.

Anche i Presidenti delle Associazioni che vorrebbero fare gli editori devono avere la cittadinanza italiana?

Sì, anche un’associazione onlus che in Italia produce un giornale e ha come Presidente un cittadino non italiano per poter fare quella testata e quindi esserne proprietario, bisogna che lui dia le dimissioni e venga eletto un presidente con la cittadinanza italiana.

Nel caso dei giornalisti non italiani, ho notato una sorta di specializzazione settoriale. In base alla loro appartenenza e passato, scrivono di immigrazione, islam, Albania. La sfida del giornalismo italiano non sembra essere quella in cui non è un giornalista albanese a scrivere di Albania, ma è uno italiano a farlo con cognizione di causa in modo responsabile?

Certamente, è un problema con cui anche noi ci stiamo confrontando. Perché dalle nostre esperienze, tutti i 25 che fanno parte dell’ANSI e altri colleghi non italiani, si sono posti questo problema: perché io devo scrivere sempre di immigrati? Rimango perplessa anche quando mi viene chiesto di scrivere di un qualsiasi immigrato. Posso avere fonti privilegiate e più contatti per quanta riguarda la comunità da cui provengo. Invece, quando mi viene chiesto di parlare di immigrati in genere, mi spiazzano come se spiazzassero un qualsiasi altro giornalista a cui viene chiesto di scrivere sul tema. Questa specializzazione pesa anche a noi. Sogniamo anche noi un tempo in cui ci verrà chiesto di scrivere tipo: cosa ne pensi tu in quanto cittadino di questa città di quello che viviamo oggi? Com’è la città che tu vivi? E lì magari verranno fuori anche aspetti che riguardano il fatto di frequentare certi gruppi, di andare a vedere la pasqua ortodossa quando c’è, e viene naturale.

Probabilmente è questa la sfida e la ragione per cui abbiamo scelto di stare dentro il gruppo di specializzazione e non fare voce a parte, perché vogliamo lavorare insieme. Ci sono colleghi che mi chiamano per chiedermi informazioni del tipo: “ma tu cosa ne pensi e sai di questa violenza romena?”. Di quale violenza romena parliamo? Se parlassimo dentro le redazioni non verrebbero fuori certi luoghi comuni assurdi secondo i quali i romeni hanno un codice genetico violento, oppure tutti i cittadini provenienti dal Nord Africa sono islamici. Non parliamo sciocchezze. Molto spesso i colleghi giornalisti chiedono conferme sui luoghi comuni che hanno maturato. Chi è preparato di dire che non è cosi, ha il privilegio di formare una corrente di opinione. Altrimenti si rischia di trovarsi, come è capitato anche a me, nella situazione di dover confermare quello che i colleghi italiani ti chiedono. Probabilmente noi come fonti privilegiati delle nostre comunità, possiamo fare tanto per superare questi ostacoli.

Quindi c’è tanto bisogno di formazione, anche deontologica, per i giornalisti italiani?

Per tutti i giornalisti. Abbiamo bisogno di formazione quotidiana, e penso che possiamo farla insieme. Se si fosse lavorato insieme tutti questi anni, non saremo arrivati a dire: “c’erano tanti slavi tra cui anche romeni”, oppure, “i romeni che sono arrivati in gommone”. Non si arriva dalla Romania in gommone. Si arriva via terra, via aerea. Insomma, sono situazioni che avremmo risparmiato se avessimo lavorato un po’ tutti insieme.

È cosi importante nella descrizione giornalistica di chi commette un reato la sua provenienza?

È un dato, e viene riportato nel titolo soltanto se si tratta di uno straniero. Arriviamo sempre allo stesso discorso: se non viene scritto dentro il titolo siamo sicuri che non era straniero. E allora respiriamo tutti sollevati. Perché si è creata l’abitudine che se è uno straniero, lo diciamo già nel titolo. Ad esempio: “romeno investe”, “romeno ammazza”, “romeno stupra”. Quando leggiamo “operaio investe”, siamo sicuri che è italiano.

La responsabilità nel scrivere è indotta o personale? Quanto un giornalista può riportare i fatti senza cadere nella trappola degli allarmismi e delle strumentalizzazioni politiche?

Io farei un distinguo. Molto spesso, mi è capitato di vedere degli articoli molto ben scritti, documentati ed equilibrati da giornalisti che fanno molto bene il loro lavoro. E questo va detto. Ma vengono affiancati a dei titoli che non c’entrano niente con l’articolo, che creano allarmismi e riflettono l’orientamento e la linea del giornale stesso. Magari molto spesso un articolo equilibrato viene in qualche modo guastato da un titolo non proprio ispirato oppure che è stato proposto per manipolare l’opinione. A questo punto farei bene il distinguo tra chi fa i titoli e chi fa l’articolo.

Quindi è più responsabilità dei titolisti e dei caporedattori?

Probabilmente sì, e comunque di chi ha fatto del giornale uno strumento politico.

Eppure negli incontri a livello locale, i caporedattori locali non ammettono di avere una responsabilità nella rappresentazione della realtà che offrono ai lettori. Dicono di fare informazione.

Se l’hanno fatto in buona fede significa che siamo in un punto veramente critico. Perché se non si rendono conto del danno che stanno facendo, vuol dire che c’è ancora tanto da lavorare. Penso che molto spesso, che c’e chi fa l’uso che crede del lavoro onesto, equilibrato e professionale di molti colleghi.

È stato confermato che Mohamed Fikri, presunto rapinatore della piccola Yara, non c’entra niente con il caso. Invece, i mezzi di informazione l’hanno sbattuto in prima pagina. Ci sono gli estremi per fare degli esposti all’Ordine dei giornalisti?

Mi risulta che vengono già fatti. Molte associazioni anche dei giornalisti come “Giornalisti contro il razzismo”, “Articolo 3”, hanno già fatto questo tipo di esposti e vanno fatti. Va martellato l’Ordine dei Giornalisti e chi ha il dovere di prevenire. Anche l’eco e i risultati che questi esposti hanno, vanno seguiti attentamente.

Il 15 dicembre 2010, i cittadini albanesi si muoveranno senza visti nell’Area Schengen. C’è già qualche giornale che ha iniziato a suonare i campanelli d’allarme. Secondo lei, dopo questa data, rischiamo di essere i nuovi romeni oppure i vecchi albanesi?

Lo stesso allarme è stato lanciato anche quando la Romania è entrata nella Comunità europea. Non c’è stata una invasione. Devo dire che chi fa queste affermazioni, non si rende conto che l’Albania non ha 100 milioni di abitanti, ma meno di 4. Chi ha voluto andare via, è già andato ed ha fatto le sue esperienze. Dall’altra parte, abbiamo fatto l’abitudine di leggere i titoli che vengono dagli stessi giornali ormai trasformati in strumenti politici che tentano di sviare l’attenzione dai problemi veri verso quelli inesistenti.

Fonte: Albania News

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