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lunedì 17 gennaio 2011

"Torino, la passione sotto l'acqua cheta"

cultura
16/01/2011 - i love to - andrea bajani

Andrea Bajani nasce a Roma nel 1975. A tre anni si trasferisce con la famiglia a Roccavione in provincia di Cuneo. Arriva a Torino a 19 anni per laurearsi alla facoltà di Lettere. Abita a San Salvario. Ha fatto molti lavori precari, prima di diventare uno scrittore. Il suo ultimo romanzo si intitola «Ogni Promessa»

«A San Salvario c'è tanta gente che vuole reagire: è un quartiere che respira il domani»
niccolò zancan

torino
Andrea Bajani, qual è il più grande scrittore torinese? «Franco Lucentini, se penso a uno scrittore ingiustamente trascurato. Vero: è nato a Roma, ma ha vissuto qui. E il suo “Notizie dagli scavi” è un libro stupendo di cui si parla poco. Altrimenti Primo Levi, non c’è dubbio. La sua idea sul lavoro, “La chiave a stella”. “I sommersi e i salvati” è uno dei più grandi libri del Novecento».

In che modo questa è una città letteraria? «Posso dire perché ispira me. Innanzitutto perché ha un fiume che la innerva e la taglia. Se potessi passerei giornate intere attraversando il Po, il fiume non sai da dove arriva e dove porta. E poi io credo che qui ci sia, da torinese adottato - una città verso cui provo una profonda gratitudine - un’acqua cheta. Torino ha il mistero di tutte le cose che in superficie sembrano calme, ma sotto hanno profondità passionale e un grandissimo stile. Ed è proprio questa l’idea di letteratura che preferisco: unire emozioni e eleganza».

Perché i protagonisti dei suoi libri viaggiano sempre verso Est? «Vanno dove nasce il sole e cominciano le cose, dove mi sembra di dover andare ogni volta. Oggi vale solo quello che succede nel presente, si sovrascrive, il passato non conta. Andare alle sorgenti invece è molto interessante. Non c’è conoscenza senza confronto. A Est c’è l’unico mondo non ancora del tutto occidentalizzato, lì si può vedere quello che succede nei mutamenti. La Romania di oggi serve per capire cosa è accaduto in Italia negli Anni Cinquanta». Era un libro quasi profetico il suo «Cordiali Saluti», con il protagonista che scriveva lettere di licenziamento. Che reazioni riceve oggi? «Il tema purtroppo è drammaticamente attuale. I cordiali saluti sono un rischio collettivo. Le reazioni sono ancora tante, prevale una specie di sentimento di gratitudine perversa, l’idea di poter dire: “Anch’io ho perso il lavoro”. Condividere. La letteratura è il luogo del dialogo. Da quel testo è nata una collaborazione con Gian Maria Testa a Giuseppe Battiston per uno spettacolo teatrale che esordirà il l8 febbraio al Carignano. La storia di un cinquantenne che perde il lavoro».

Come organizza le sue giornate da «libero» scrittore? «Mi difendo tirando su dei muri. È un mestiere molto schizofrenico. Da un lato hai bisogno di isolamento e silenzio per scrivere, poi quando i libri escono ti ritrovi dentro alla socialità più assoluta. È complicato».

Quali sono i suoi muri? «Gli orari. Quando scrivo vivo lunghi periodi di nomadismo da amici che mi prestano le case. Ho lavorato a Parigi e a Genova. Ma anche a Torino rispetto una disciplina quasi spaventosa. Mi sveglio alle sei, scrivo tre ore, poi faccio nuoto o vado a correre al Valentino, mi porto le parole ovunque. Nel pomeriggio riprendo a scrivere. E non riesco ad andare a dormire senza avere in testa il germe di quello che succederà il giorno dopo nel romanzo».

Una vita monastica. «Sì, vedo pochissime persone e sto molto concentrato, direi da samurai».

Quali sono i luoghi comuni su Torino che vanno sfatati? «L’ipocrisia è un falso. E poi il fatto che questa città non sappia promuoversi, mentre ha semplicemente un modo diverso di farlo. Ma credo sia un luogo comune anche quello che racconta una città sbocciata definitivamente dopo le Olimpiadi. È vero dal punto di vista estetico, ma restano difficoltà e sofferenze enormi, come è evidente in questi giorni».

Qual è il suo posto preferito? «San Salvario, dove abito. Sono un fan sfegatato».

Perché è bello abitare a San Salvario? «Nel quartiere sono arrivati un sacco di miei coetanei. Da un lato è la generazione mollata dalle garanzie e dai padri, ma sono anche quelli che hanno voglia di inventarsi delle cose. Qui stanno nascendo molti piccoli studi associati, artigiani, architetti... Mi sembra un modo bellissimo di provare a reagire. C'è una forma di creatività anarchica, non ancora addomesticata. A San Salvario si respira un’aria di futuro».

Qual è una Torino inedita, ancora da raccontare? «Della comunità romena si sa nulla o quasi. Emergono solo gli stereotipi del romeno violento, che poi sono i guai che accomunano tutte le persone emarginate, senza lavoro e senza futuro».

Lei cosa chiede al futuro di questa città? «Dal punto di vista politico e sociale, di non ragionare solo per maggioranze. Penso ai risultati del referendum su Mirafiori: credo che il cuore pulsante di Torino batta anche sul fronte del no. Dal punto di vista culturale, credo sia importante innervare tutto il territorio di iniziative, periferie comprese. Non trasformiamo Torino nel salotto del centro».

Dove vorrebbe vivere se non qui? «In nessun’altra città italiana, Parigi semmai».

Nel 2008 lei si è imbucato a tre gite scolastiche per raccontare i ragazzi in un libro, ha convissuto con studenti di Palermo, Firenze, Torino: che differenze ci sono? «L’idea era di condividere un viaggio, per poi scrivere senza un approccio sociologico. È stato buffo e istruttivo, l’omologazione fa effetto. Tutti i ragazzi italiani avevano moltissimi aspetti in comune. Ma una caratteristica dei torinesi mi ha colpito molto: era una specie di bella umiltà. Che poi è lo stile di questa città».

Fonte: LA STAMPA

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