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giovedì 10 marzo 2011

Facce, lingue e colori della nuova Torino. Quattro musicisti del Centro Interculturale di corso Taranto

cultura
02/03/2011 - la storia

Il Centro Interculturale di corso Taranto: un “oratorio” laico per i ragazzi e una scuola d’integrazione per gli adulti.
Qui si impara ad abbattere i muri
ELENA LISA

torino
Ci sono un maghrebino, un italiano e un centrafricano che pensano a un nome per il loro gruppo musicale. Due suonano già insieme, il terzo riflette se entrare nella banda. A un certo punto arriva un romeno e commenta: «Ma se siete così scarsi che per batteria avete una pentola a pressione... L’ho rubata per voi alla mia vicina. Noi dell’Est, si sa, siamo pratici a svaligiare le case...». «Noi invece siamo specializzati in rapine», ribatte presuntuoso il magherbino. E il centrafricano: «No, sono quelli con la pelle nera i più pericolosi: spacciamo droga di notte perché non ci vede nessuno». L’italiano, stretto all’angolo, balbetta: «E noi siamo i più furbi. Stiamo a guardare mentre vi organizziamo il lavoro».

Una vecchia barzelletta? No, ironia autentica al centro Interculturale, dove Youssef Bzair, 26 anni, magazziniere dal Marocco, Abdoulaye Guittey, 23 anni dal Mali, addetto al carico e scarico, Marco Lorandi, 20 anni italiano, studente, e Alexandru Rachiteanu, ventenne e anche lui studente, si sfottono ridendo e scambiandosi pacche sulle spalle. S’incontrano qui, con altri giovani dalle mille storie e dai mille colori. Vivono il centro, una sorta di parrocchia laica, sfruttando spazi e attività coordinate dai volontari dell’Asai - Associazione di animazione interculturale. Fanno gruppo senza pregiudizi. Si divertono, a volte litigano, spesso ragionano.

«Abito a Torino grazie a mio padre - racconta Abdoulaye - E’ venuto in Italia undici anni fa per lavoro e ci ha portato con lui. Sto bene, ma mi manca la nonna che è rimasta nel mio Paese: mi coccolava sempre. Ma lei mi ha dato un compito: “Se ne incontri, mi ha detto, cerca di abbattere gli stereotipi”. Sto cercando di farlo, ma ci vuole pazienza». Abdoulaye si accende una sigaretta e ricomincia: «Dignità per la gente del Mali vuol dire...». Non conclude, gli altri lo punzecchiano come solo i veri amici sanno fare: «Mali dove? Dai, dicci dove hai mali...», ridono.

Lui non fa una piega, e rilancia. «Ok, parla tu che sei il più grande: quando ti dicono “inte- grazione” a che cosa pensi?». Youssef, il battitore di tegami (sulla batteria di pentole Alexandru non mentiva) si fa spazio: «Penso esista una grande differenza tra la realtà e cosa ci raccontano, cioè che la maggior parte degli italiani ci rispedirebbe a casa. In televisione strillano, dicono che siamo un’emergenza, ma le persone che incontro non ci vedono così: sanno distinguere tra buono e cattivo». I ragazzi concordano: «Bisogna distinguere anche tra gli italiani - aggiunge Alexandru, il sincero - l’integrazione si fa a casa, nelle famiglie: se tu vivi con un padre che quando si parla di stranieri incomincia a inveire e a dire che siamo tutti mascalzoni, come credi crescano i suoi figli?».

Marco, l’italiano, si sente gli occhi addosso: «Quelli che stanno distanti, sono quelli che non sanno, che non conoscono la storia delle persone. Certo, nemmeno io so, però ci provo. E soprattutto ci credo: vivere insieme è possibile».

Fonte: La Stampa

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