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sabato 6 marzo 2010

La coop 'immigrata' del riciclo


A Cava de' Tirreni una fabbrica ecologica che mira all'integrazione e produce al mese 80 quintali di plastica. Romeni, eritrei, georgiani, uruguayani e qualche italiano. La piccola azienda messa su da un ex ingegnere col pallino del volontariato. "Così ci autofinanziamo"

di Tiziana Cozzi

La sveglia è al mattino alle 6 e 30. Un´ora dopo tre squadre sono già a bordo dei furgoni per la raccolta della plastica e dei cartoni. Romeni, eritrei, georgiani, uruguayani e qualche italiano. Il giro è quello solito: supermercati, aziende, piccoli uffici ma anche le case della gente, quando capita. La piccola (e vincente) impresa del riciclo della plastica messa in piedi da Bruno Sessa, ex ingegnere con il pallino del volontariato, è una cooperativa sociale di Cava de´ Tirreni.

La "Comunità Famiglie Nazareth" dà lavoro e casa a chi è in difficoltà, soprattutto se è straniero. Grazie ad una trovata geniale e al suo sistema rudimentale per raccogliere e rivendere balle di plastica perfettamente confezionate. Una organizzazione con i ritmi di una piccola azienda, capace di produrre mensilmente 80 quintali di plastica e fino a 300 chili di cartone. «Così ci autofinanziamo – spiega – non abbiamo ricevuto mai un euro di fondi pubblici, ma a noi va bene così. Non chiediamo elemosine». Una fabbrica del riciclo dove in gioco c´è il lavoro degli immigrati, impegnati in prima persona nella raccolta e nella selezione manuale, in cambio di un contributo dai 100 ai 150 euro a settimana.

Ma soprattutto un´esperienza di comunità sociale importante. Perché ai 40 immigrati-lavoratori, l´ingegnere Sessa ha dato anche un tetto. Vivono infatti in tre strutture sparse per la città. La più grande è Villa Iris, da poco ricevuta in comodato d´uso dal Comune di Cava, tante stanze, un giardino e una splendida vista sul paesaggio verde. Un´eccezione per chi è sbarcato in Italia e ha dovuto accettare lavori da schiavo pur di sopravvivere. In questo modo Sessa ha aperto la strada a una vera integrazione. Una possibilità contemplata solo per i più volenterosi, gli sfaccendati restano fuori.

Le condizioni sono chiare, appena arriva un nuovo ospite: «C´è stato in questi anni chi non aveva voglia di lavorare – racconta Sessa – ma dopo poco tempo vanno via. Qui tutti lo sanno. Da me o si lavora o niente». Quelli che rinunciano sono pochi. In tanti accettano di lavorare e restano con lui, la spinta è la voglia di riscatto. Una volta trasportati i materiali nei depositi, gli immigrati (assieme a pochi italiani ospiti della Comunità) li lavorano, separano la plastica dagli altri residui, li introducono nella pressa e ne fanno balle, di solito più di 20 in un giorno solo. Asmara, eritrea di 23 anni, separa i diversi tipi di plastica tutto il giorno. E qualche volta dà una mano in cucina. Dopo 3 anni passati in un centro d´accoglienza a Crotone, ha preso il primo treno ed è scesa a Salerno. E ora, per la prima volta, lavora. Anche se parla pochissimo italiano.

Mario, romeno di 47 anni, faceva il panettiere fino a 5 mesi fa, poi è stato licenziato. «Ma questo è un lavoro bellissimo. Anche se nel mio paese facevo il fabbro».
(03 marzo 2010)
Fonte: La Repubblica

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