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martedì 24 febbraio 2009

A nord del futuro: l’oscura chiarezza di Paul Celan


“La funzione del traduttore, di ogni traduttore, è […] impresa e capitolazione a un tempo. Nel compito, il mandato è già esaurito; ci si ritira dalla competizione, se ve n’è una. Resa o abbandono, la traduzione praticabile è nella rinuncia a trasmettere, comunicare un significato presente nell’originale - perché se c’è messaggio, questo concerne e procede soltanto nella relazione tra le lingue in gioco, e non mediante un contenuto da recuperare nell’altro e riprodurre in proprio”. Così lo psicanalista Mario Ajazzi Mancini nel suo A nord del futuro - scritture intorno a Paul Celan (Editrice Clinamen, pp. 124, € 14,80) che raccoglie articoli, saggi e interventi sulla poesia di Celan scritti negli ultimi dieci anni e impreziositi di una serie di traduzioni di altissimo livello.
Ed è proprio nella relazione tra lingue e parole che risiede in qualche modo l’intera poetica celaniana fatta di disappartenenza e alterità: “sono te, quando io sono io.” È il lutto che viene messo in scena, scrive Ajazzi Mancini, il lutto che interiorizza l’altro; si tratta della rappresentazione dell’altro morto in me, delle milioni di vittime della lucidità nazista morte in noi. Questa è la vera forza d’urto della poesia di Celan: l’incredibile impatto del messaggio, impossibile da decifrare, da caricare su un vettore, ma in grado lo stesso di arrivare al destinatario in tutta la sua chiarezza. Perché il destinatario è l’altro e cioè me stesso quando sono me stesso. I versi del poeta rumeno sono già dentro me.
Come è possibile allora assolvere al compito di traghettare parole tanto prorompenti, eppure delicate, fatte d’ombra, in un’altra lingua? Come tradurre il linguaggio? Eppure il linguaggio è al centro dell’opera del più enigmatico dei poeti, che a sua volta fu traduttore (di Cioran, Ungaretti, Valéry tra gli altri). Ha ragione da vendere Ajazzi Mancini. Bisogna rinunciare al contenuto del messaggio.
Forse proprio dall’inquietudine identitaria delle sue origini - rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, nato in una città della Bucovina austroungarica, oggi sotto l’Ucraina - e dalla sua vita, sempre in movimento, radicata e sradicata, passata attraverso l’orrore dei campi di concentramento e poi del regime comunista in Romania, dalla vita bohémienne parigina a quella dei salotti filosofici tedeschi, scaturisce la potenza del linguaggio di Celan - tanto che Maurice Blanchot lo definì l’ultimo a parlare - e scaturisce altresì la potenza del poeta e dell’uomo, che durante una lettura pubblica a Friburgo rimproverò aspramente, per la disattenzione con cui lo ascoltava, il filosofo che fece proprio del linguaggio un sistema mondo: Heidegger. Un pensatore che Celan amava nonostante tutto, nonostante il rifiuto alla sua richiesta di ripensare la sua silenziosa complicità col regime hitleriano.
Non è semplice avere a che fare con un personaggio tanto misterioso quanto cristallino, e tanto meno con le sue parole. A nord del futuro ci prova, e ci riesce arrendendosi. La resa, l’abbandono, il tuffo (linguistico) in acque torbide, come quello che fece Celan per chiudere il discorso con la vita, sono le uniche chiavi per affrontare il mistero delle sue poesie, oscure per la mente eppure perfettamente limpide per lo spirito. [...]

Fonte: Panorama.

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