C'è una solitudine che è tutta linguistica, semantica: un linguaggio povero, marginale, che tradisce e svela la periferia non solo urbana, ma dell'anima, uno stare fuori dai giri, in microcosmi che sono abitati da monadi scontrose e bisognose. Bisognose di tutto: d'affetto, di sentimento, di parole appunto.
Racconta anche questo il bel testo Le mattine dieci alle quattro, scritto da Luca De Bei e messo in scena, in collaborazione con Alessandra Paoletti, alla Sala Uno di Roma. Successone di pubblico, tanto che - come si diceva una volta "a grande richiesta" - sono state prorogate le repliche: e proprio a una replica "straordinaria" abbiamo assistito, tutti stipati sulla gradinata della saletta ricavata sotto la Scala Santa a San Giovanni.
E la storia, allora, è quella di tre marginalità, di tre sperdute e sparute identità che si incontrano, per caso ma reiteratamente, alla fermata di un autobus per andare a lavorare. Periferia di Roma, linguaggio sospeso tra Pasolini e sms, tra Gadda e Grande fratello, tra Monicelli e cinepanettoni. Divertente e spiazzante, comico e amaro, borgataro e generazionale. Sono incontri notturni, o mattutini - tutte le mattine, alle quattro meno dieci, come dice il titolo - mentre una nebbia fitta avvolge tutto, aspettando autobus sempre in ritardo: per poi raggiungere altre marginalità, altre vite imbastite di fatica e povertà.
Sono in tre alla fermata: due uomini e una giovane donna. I due lavorano in un cantiere, vittime di caporali e sfruttamento. Uno dei due è rumeno, zoppica vistosamente per una brutta caduta da un ponteggio. L'altro è l'ex idolo locale, bello e scemotto, ingenuo e generoso (si porta il rumeno a dormire a casa della mamma, perché quello non sa dove andare). Poi c'è lei, vispetta e caruccetta: va a fare pulizie, e anche lei, ovviamente, lavora in nero.
Ecco, lo sfondo melmoso di questa storia: oltre le umanità vi è un mondo fatto di lavoro precario e precarissimo, di illegalità diffusa e accettata, di impossibilità a fare altro. Lei avrebbe voluto studiare per fare la parrucchiera, lui vorrebbe una moto: sognano di andare al mare. Piccole cose, piccoli sogni, piccole parole in questo mondo che è dunque banlieu del cuore, della identità. Allora quando una scintilla, casuale, fa aprire bocca e i tre si parlano, la conversazione è farraginosa, difficile, riluttante. Poi, quando finalmente tra i due giovani scatta una progressiva e tenerissima intimità, allora sono monologhi, quasi soliloqui, in cui ognuno - dapprima con reticenza, poi sempre più - svela se stesso. Sembrano quasi, per usare una metafora improbabile, quelle conversazioni che si fanno in webcam su Skype: uno guarda l'altro, e vede se stesso, si osserva osservato, senza riconoscere né se stesso né l'altro, in un dialogo continuamente sfasato, con i tempi di comunicazioni diversi. I corpi quasi non ci sono: sono a disagio, sono goffi, non si sa mai cosa fare delle mani davanti allo schermo.
Così, i giovani protagonisti di questa storia, hanno movenze sapientemente impacciate: i piumini sempre addosso, quasi a proteggersi da un freddo che non è solo quello misurabile in gradi centigradi; le mani in tasca; l'mp3 o la gomma in bocca per lei e qualche slancio eccessivo frutto di una incontrollabile energia del corpo da parte di lui. E l'unica volta in cui i due si abbracciano, con tenerezza - sempre là, alla fermata d'autobus - si addormentano. Ma non vi è lieto fine possibile in queste periferie: la tragedia è dietro l'angolo, ingombrante e normale, prevedibile e accettabile come fosse un fato riservato a chi della vita conosce solo la prospettiva della marginalità.
Ovviamente sarà la morte a interrompere sogni e sentimenti. Morte sorda, inutile, sprecata come spesso sono le morti oltre che le vite. Morte al cantiere, sul lavoro: per un colpo di sonno, per una leggerezza, per mancanza di sicurezza o di tutele. Le mattine dieci alle quattro ha ottenuto il riconoscimento del premio "Enrico Maria Salerno" 2007 proprio per la capacità di affrontare - con garbo e intelligenza - temi scottanti come quello delle morti bianche, dell'immigrazione, del disagio sociale: magari qualcosa poteva essere sfrondato (a tratti si ha l'impressione di un eccesso di racconto, tutto è esplicitato) e forse una scena chiave troppo insistita rende prevedibile, quasi "telefondandolo", l'epilogo tragico.
Ma sono bravi i tre interpreti a rendere con ironia e adesione questo sottile gioco di amori mancati e vite sperdute. Federica Bern è Ciranda, detta Cira, per l'autore classe 1984; Riccardo Bocci è William, detto Uil, classe 1982 e Alessandro Casula è il rumeno Stefan, nato nel 1986: giovani, dunque, figli di un paese impastato di televisione e frustrazione. In questa Italia qua, a trent'anni i sogni finiscono, si cresce soli, senza troppe ambizioni o speranze. E si può morire di lavoro.
Fonte: Del Teatro
lunedì 8 febbraio 2010
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