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lunedì 14 luglio 2008

Corte di Giustizia - Le limitazioni alla libera circolazione devono rispettare il principio di proporzionalità.


di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo.

Il ministro Maroni ha reagito “indignato”alla risoluzione del Parlamento Europeo che “esorta le autorità italiane ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali dei rom, inclusi i minori, e dall’utilizzare le impronte digitali già raccolte, in attesa dell’imminente valutazione delle misure previste annunciata dalla Commissione, in quanto ciò costituirebbe chiaramente un atto di discriminazione diretta fondata sulla razza e sull’origine etnica, vietato dall’articolo 14 della CEDU, e per di più un atto di discriminazione tra i cittadini dell’Unione Europea di origine rom e gli altri cittadini, ai quali non viene richiesto di sottoporsi a tali procedure”.
Con diverse dichiarazioni, i ministri Maroni e Frattini, per rilanciare il “pacchetto sicurezza”, in corso di rapida approvazione da parte del Parlamento, hanno spostato il tiro sul problema dell’espulsione dei cittadini comunitari, come se la schedatura dei rom potesse giustificarsi con le decisioni della Corte di Lussemburgo in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari. Si è invocata una recente decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, adottata il 10 luglio scorso, in tema di libertà di circolazione dei cittadini comunitari, per tentare di dimostrare che le decisioni italiane in materia di sicurezza sarebbero coperte dalle valutazioni dei giudici di Lussemburgo. Una impresa destinata a fallire non appena si leggano per esteso i testi delle decisioni della Corte di Giustizia e delle direttive comunitarie.
La portata reale della sentenza adottata dalla Corte il 10 luglio 2008 è esattamente contraria rispetto a quanto asserito da Maroni e dalla stampa in Italia, un ennesimo tentativo di depistaggio dell’opinione pubblica, per raccogliere consenso attorno a misure di stampo chiaramente razzista e discriminatorio.
Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione europea” il diritto comunitario non osta a una normativa nazionale che consente di limitare il diritto di un cittadino di uno Stato membro di recarsi nel territorio di un altro Stato membro, in particolare perché questi vi si trovava in «situazione illegale», a patto che siano soddisfatte alcune condizioni. Da una parte, il comportamento personale di tale cittadino deve costituire una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società. Dall’altra, il provvedimento restrittivo che si intende adottare deve essere idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo che persegue e non eccedere quanto necessario per conseguirlo”.
La normativa italiana relativa alle limitazione della libera circolazione dei cittadini comunitari, contenuta nel pacchetto sicurezza, contiene norme che consentono una larga discrezionalità alle forze di polizia nell’adozione di provvedimenti limitativi della libertà personale sulla base di generici “motivi imperativi di pubblica sicurezza”. Questa normativa e le prassi amministrative che ne sono già conseguite, con le operazioni di censimento dei “campi nomadi”, adesso sulla base del richiamo improprio alla recente decisione della Corte di giustizia, appaiono invece in netto contrasto, sia con il dettato costituzionale, che con la Direttiva in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari.
L’art. 27, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE prevede che “i provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale essi sono applicati. (…) Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società. Giustificazioni estranee al caso individuale o attinenti a ragioni di prevenzione generale non sono prese in considerazione”. Queste stesse norme di principio sono attuate nell’ordinamento italiano dai commi 4 e 5 dello stesso art. 20 del D.Lgs. n. 30/2007, nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 32/2008. All’art. 28 la stessa direttiva comunitaria prevede peraltro“ la necessità di compiere una valutazione prima di adottare qualsiasi provvedimento di allontanamento, per tenere conto della situazione personale dell’interessato, segnatamente la durata del suo soggiorno, la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione familiare ed economica, la sua integrazione nello Stato membro ospitante”.Pertanto anche qualora si ritenesse davvero indispensabile che le ipotesi di indebito trattenimento del cittadino comunitario in uno stato diverso dal proprio, che costituiscono soltanto un inadempimento di obblighi amministrativi, debbano essere sanzionate con misure di allontanamento, il legislatore nazionale dovrebbe scegliere misure diverse, meno afflittive e non discriminatorie, rispetto a quelle previste per persone pericolose per la sicurezza. In conformità al principio generale che nei trattati istitutivi e nelle norme comunitarie fonda la cittadinanza dell’Unione europea, cioè la libertà di circolazione, soggiorno e stabilimento dei cittadini dell’Unione europea e dei familiari extracomunitari con loro conviventi, rispetto al quale i limiti per motivi di ordine pubblico e di sicurezza di ogni Stato devono essere sempre configurati quali eccezioni da valutarsi caso per caso.
[ venerdì 11 luglio 2008 ]
Fonte: Melting Pot

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