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domenica 31 gennaio 2010

«Il Male, accanto a me» L'Olocausto di Schlesak


Il giorno della memoria

Lo scrittore rumeno autore de «Il farmacista di Auschwitz» parla dell’Olocausto. Visto da vicino. «Ogni celebrazione comunitaria in cui si ricorda un grande morto ha in sé una potenza di resurrezione»

Dieter Schlesak

Dieter Schlesak è poeta e scrittore potente. È nato in Transilvania, oggi regione della Romania, ha subìto la dittatura comunista di Ceausescu, da cui è fuggito, e vissuto da vicino l’orrore dell’Olocausto. Alla comprensione e alla memoria della Shoah ha dedicato una vita intera. Il farmacista di Auschwitz, (Garzanti) l’ultimo suo libro, di cui sotto, in questo brano scritto per noi, cita più passi, è un ponderoso lavoro di ricostruzione, anche attraverso migliaia di documenti, della figura di Victor Capesius: un uomo che lo stesso Schlesak conobbe e frequentò quando era piccino, un vicino di casa, apparentemente caro e amorevole. Un vicino di casa che a un certo punto si trasformerà in uno dei più crudeli carnefici di Hitler. Oggi Schlesak vive con la moglie in Toscana, ad Agliano, tra i boschi che sovrastano Camaiore.

Mai più. Il Giorno della Memoria 2010, la liberazione di Auschwitz, il 27 di gennaio 1945. Su questo giorno i testimoni oculari raccontano. Adam Salmen: «Spaventosa sporcizia ovunque. Nell’ospedale delle SS gli uomini di guardia sono scappati in tutta fretta. Sui tavoli abbiamo trovato piatti semipieni con zuppa congelata». «Zuppa che abbiamo inghiottito, boccali pieni di birra, trasformatasi in ghiaccio giallastro. Ora in tutte le baracche c’erano letti su cui giacevano dei morti, rigidi e duri come bastoni. A nessuno è venuto in mente di portarli via. Il terreno era troppo gelato. Impossibile scavare delle fosse. Molte salme furono accatastate l’una sull’altra in una trincea, ma già dopo i primi giorni il mucchio dei cadaveri oltrepassava in modo impressionante il bordo della trincea, una cosa spaventosa a vedersi dalla nostra finestra».

Diario di Adam Salmen, 27 gennaio 1945: «Verso le 9 del mattino il primo soldato sovietico, membro di un gruppo di ricognitori della 100a Divisione Fanteria ha raggiunto l’area dell’ospedale (...) Sono spuntati quattro cavalieri: giovani dell’Armata Rossa, circospetti, le canne dei mitra puntate sul lager, per proteggersi. Arrivati alla recinzione di filo spinato alcune timide parole, sguardi timorosi ai mucchi di cadaveri, a noi. Spessi berretti di pelliccia e sotto sani (…) volti infantili, contadineschi. Un saldo sostegno per noi con le guance incavate nel nulla, nella morte: tripudio, spiriti vitali che si ridestano». Marianne Adam: «Gli sventurati prigionieri, finalmente sfuggiti all’inferno dei campi di concentramento, stavano intanto dilagando lungo le strade d’Europa. Cercavano la loro patria. Non avevano più famiglie; i genitori erano stati uccisi. Non riuscivano più a trovare i figli, le mogli, i mariti. Persino una volta tornati a casa erano guardati di traverso». Baila: «…Oioi, è un dulure, che non tace mai. E l’ho qui, nel mio petto, qui dentro, il grosso dulure, il sentimento, vorrei poter piangere, sempre piangere, ma non posso neanche questo, posso ancora vivere solo così… e posso solo aspettare la morte… non sono finita nella camera a gas, il buon Dio questo non l’ha voluto: io dovevo sopravvivere, dovevo tornare, ma per cosa? Qui nel quarantasei non c’era più una ebrea, la nostra casa distrutta, ciò che avevo avuto, sparito. E i miei figli — la ragazza e il maschietto, dei bambini così buoni — non li ho più visti e nessuno ha saputo dirmi dove sono finiti, dove sono morti, i piccoli, essi hanno chiamato per l’ultima volta la loro mamma, e la mamma non c’era, era da un’altra parte, oioi». (Dal mio libro Il farmacista di Auschwitz Garzanti, ottobre 2009).

In questa sorta di mia biografia, nel mio libro su Auschwitz in cui io parlo di criminali delle SS, che erano membri della mia famiglia, non sono solo loro a non darmi pace e a tormentare la mia memoria, ma anche gli amici, i conoscenti ebrei che sono stati là e mi hanno raccontato di quell’inferno vissuto. Quell’orrore impensabile per il quale la lingua umana non trova parole, e la nostra percezione non ha paragoni e la nostra fantasia è troppo limitata… Sì, sono legato a questo crimine attraverso la mia famiglia e gli amici della mia famiglia. Tra di loro c’è anche il Dottor Victor Capesius, quello da tutti conosciuto come il farmacista di Auschwitz. E poi cinque miei zii, anche loro arruolati nelle SS, che servivano nelle necropoli dello sterminio nazista, Auschwitz, Buchenwald, Neuengamme e Dachau. Io stesso, nato del 1934, avevo la stessa cultura sociale tipica della famiglia tedesca di Transilvania e se fossi nato soltanto otto anni prima, anche io, forse, sarei stato destinato a diventare un criminale coinvolto nel genocidio. Per tutta la mia vita di scrittore ho sentito sempre questa vicinanza, questi ricordi, questa «familiarità» del male e col male. E mi sono domandato come è stato possibile che questa gente, questi familiari, questo farmacista, questi zii «buoni», questa gente «normale» come me, come noi tutti, abbiano potuto fare queste cose!? Me lo sono chiesto e continuo a chiedermelo. Perché anche oggi, dopo tante interviste e discussioni con loro, dopo ricerche che durano ormai da quasi trenta anni, non ho trovato una risposta soddisfacente. Una pazzia collettiva? Una seduzione o un’infezione di matrice ideologica? Ma i crimini, di uccidere donne, vecchi e bambini, fino a 15.000 ogni giorno con il gas, come spiegarli?

Davanti a tale atroce follia le irripetibili e terribili risposte del farmacista Capesius che semplicemente asseriva: «Ma era legale», era richiesto dallo Stato: «Befehl ist Befehl!», diceva, «il dovere resta il dovere». E anche Roland, mio zio, ufficiale delle SS, mi spiegava: «Non ero io quello, quando dovevo uccidere era come un brutto sogno. Insopportabile. Ma io non potevo disertare, e come fare? Era la mia gente, erano quelli delle SS che avevano bisogno di me!!». Questo Dr. Capesius, nelle camere a gas mandava anche i propri conoscenti ebrei, fino a poco prima colleghi e concittadini transilvani. E morivano soli, nudi nel buio totale con i loro ultimi gridi impensabile: 2000 persone insieme in una grande sala di gas. Il giorno della memoria, sì memoria, che fa parte di un altro mondo, non quello fisico, distruttibile, e così importante, come diceva anche Claude Lanzmann nel suo noto film «Shoah», questo giorno della memoria è importante per non lasciare le vittime, neanche ora, sole nel buio, nella morte senza Dio. Siamo con loro? La nostra anima è con loro? Il ricordo in un senso molto profondo e una Anamnesis, anche nel senso della bibbia. La forza di qualsiasi celebrazione umana comunitaria in cui si fa memoria di un grande morto, così come per me tutti i morti dell’Olocausto sono grandi morti, possiede già in sé una certa potenza di resurrezione.

Dieter Schlesak
27 gennaio 2010

Fonte: Corriere Fiorentino.

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